I NOVISSIMI
L’INFERNO
Capitolo IV
1. Dove l'inferno? Ci
sono tanti dannati?
Ecco alcune domande che possono essere tra le più
spontanee, ma che rischiano di spingere quanto meno all'equivoco
nell'interpretazione di un dato rivelato tra i più conturbanti.
La curiosità circa il “luogo” dell'inferno può essere
soddisfatta con una riflessione teologica. Se ci sì rende conto del fatto che
l'aldilà non riserva sorprese soltanto circa il tempo, come abbiamo notato, ma,
forse, anche circa lo spazio. Si tratta di uno spazio simile al nostro, o addirittura
continuo al nostro?
Dove immaginarlo? Ma poi, o ancor prima, ha senso uno
spazio di dannazione per anime o persone che sono entrate in una fase di
esistenza che non è più terrestre e in un divenire come il nostro eppure
diverso dal nostro? Non si tratta di riaggiustare la concezione dell'universo,
geocentrica, eliocentrica o altro. Si tratta, molto più radicalmente, di
intuire che si è ad un piano diverso di realtà e, dunque, di comprensione. Si
dica, allora, che inferno è uno stato di vita, frenando un poco la fantasia. O
usandola, ma con la costante consapevolezza che le immagini sono materiale da
interpretare. Per quanto concerne, invece l’eventuale “popolazione” dell’inferno
– “quanti” è “chi”-, siamo di fronte a
interrogativi a cui Cristo stesso si è sempre rifiutato di rispondere.
Si possono analizzare tutti i testi del Signore Gesù o
della Chiesa primitiva o del Magistero susseguente: nessuno di essi permette di
affermare con sicurezza che – a parte gli angeli decaduti – vi siano uomini
dannati. Ancor meno si riesce a stabilirne il numero e l’identità. Nemmeno per
Giuda. “Ma secondo testimonianze di esorcisti Giuda si è dannato”.
Allora porta larga attraverso la quale molti sono
coloro che entrano nel fallimento finale dell’esistenza, si può opporre la
preghiera di Cristo che è venuto a redimere tutti, o la volontà di Dio che
vuole tutti salvi e che nessuno perisca.
Pro e contro. Non si è alle prese con un rompicapo. Si
è di fronte ad una precisa volontà del Signore Gesù, il quale non intende dare
una sorta di “réportage” in anticipo su ciò che sarà oltre la morte e oltre la
conclusione dell’universo.
Intende, invece, responsabilizzare sempre la persona.
Vigilate. Pregate. Fate penitenza. Ecc. Se no, la possibilità è il destino di
disperazione senza fine. Il discorso di fede, comunque, non va mai incontro a
prurigini per sapere gli esiti della libertà umana che si misura con Dio;
interpella, invece, la libertà umana perché si converta e accolga la dilezione
e la misericordia di Dio.
Non si discuta dei “novissimi” come di “cose” che
avvengono. Ci si mette in questione davanti ai “novissimi” che aprono opposte
possibilità alla libertà. La storia dei risultati la si vedrà poi, a
conclusione avvenuta.
2. In che cosa
consiste l’inferno?
Forse, sarebbe più agevole dare prima gli insegnamenti
rivelati circa il paradiso, e poi ribaltare l’esposizione per intravedere la
realtà dell’inferno.
Qui si è
preferito seguire lo schema catechistico tradizionale negli ultimi secoli. Del
resto, anche gli accenni che si faranno alla beatitudine presuppongono un poco
tutta l'esposizione del dato rivelato circa Dio, la creazione, l'uomo, il
peccato d'origine, Gesù Cristo, la chiamata dell'umanità alla salvezza, la Chiesa,
ecc. Tutto il “Credo”, insomma, con qualche puntata della morale.
Un metodo per
giungere a dire qualcosa di sensato - di rispondente alla rivelazione - può
essere quello di analizzare la situazione del peccatore, portandola alle sue
estreme conseguenze. Poi si consiglieranno meglio gli spunti per una qualche
comprensione dell'inferno. Dell'inferno, o, forse meglio, della dannazione, o
del dannato, poiché si tratta di soggetti umani che sono in gioco. Si parla di
noi, almeno come rischio o possibilità.
Come è noto,
si dà peccato grave o mortale: si dà - quella scelta, cioè, che la persona - e
la persona credente in particolare - compie contro Dio, rifiutando il suo amore
per ribellione - o per noncuranza. Anche la noncuranza può essere disprezzo
sottile: almeno perché l'uomo ha in sé il bisogno insopprimibile di Dio per
capirsi e attuarsi nel mistero del perdono e della grazia.
Ora, nel peccato
veramente grave o mortale, l'uomo non si limita a compiere dei gesti
oggettivamente contrari alla legge morale - naturale ed evangelica - ;impegna
tutta la sua libertà, decidendo pienamente e definitivamente In opposizione a Dio
che si manifesta in Cristo. Pienamente. Ciò significa che, per quanto sta il
lui, l'uomo impegna tutte le proprie forze. Definitivamente. Ciò significa che,
per quanto sta il lui, l'uomo determina il proprio destino per sempre. Il
fatto, poi, che egli possa ripetere la scelta compiuta, dipende dalla sua
condizione terrena ancor fluida, non cristallizzata, se si può dire.
Col passaggio
della morte, come si è rivelato, la capacità di decisione si fissa
irreversibilmente sul valore, o non - valore, su cui si è puntato la vita.
Il peccatore, di
là dal tempo della salvezza, si scopre , così , come un io ha voluto erigersi
ad assoluto , del vero è del falso, del bene e del male, costruendosi da sé il
proprio progetto di vita e il proprio destino. l'autonomia assoluta è la
caratteristica del peccato.
Il Dio
condiscendente che si para davanti al dannato: il Dio che ha mandato il suo
figlio unigenito a farsi uomo e a morire e risorgere per noi; il Dio che in
Cristo ha effuso lo Spirito di grazia e di consolazione nella Chiesa nel mondo:
questo Dio viene rifiutato totalmente ed eternamente.
La scelta
contro Dio potrebbe apparire come un fatto estraneo o, quantomeno, periferico
all'uomo, se non si ponesse mente alla necessità, all'esigenza che l'uomo porta
in sé di attuarsi pienamente nel Dio di Gesù Cristo. Il mistero dell'uomo trova
spiegazioni e attuazione soltanto nel più grande mistero di Cristo.
Ciò non solo a
causa del peccato di origine e delle colpe susseguenti che l'uomo ha bisogno di
farsi perdonare. Ma anche perché l'uomo storico non raggiunge la propria perfezione,
se non la riceve dall'esterno, da altro da sé: dal Dio Redentore che chiama
l'uomo a partecipare alla sua vita di grazia.
Paradosso
dell'uomo, che non può rimanere soltanto uomo: deve scegliere tra essere
“divinizzato” o “incompiuto”: colpevolmente incompiuto. E dissociato. Dissociato,
perché egli non ha il potere di annullare la tendenza, l'aspirazione,
l'esigenza - ridiciamo la parola - di comunione e di vita con Dio. E, d'altra
parte, non si accetta il punto da compiere liberamente questa esigenza nella
comunione con Dio.
Si opera in
tal modo una sorta di schizofrenizzazione esistenziale, prima che psicologica,
del dannato. Una schizofrenizzazione che è orientamento voluto all'assurdo. Ha
bisogno di riamare Dio. In questa risposta troverebbe la felicità. Non la
vuole, questa felicità. Ma, al tempo stesso, non gli è dato di sradicare dal
cuore il bisogno di Dio. La contraddizione è evidente. Il tragico è che la
contraddizione è deliberata.
La sofferenza
che ne deriva può essere solo intravveduta a partire dall'esperienza del
rimorso a cui non si vuol dare ascolto e che permane.
Se, poi, è
vero - com'è vero - che l'uomo è un essere sociale, chiamato non solo alla
solidarietà dell'identica stirpe, ma alla comunione fraterna che ha per nodo
segreto lo Spirito che conforma a Cristo e che di molti fa "uno" in
Cristo, allora risulta chiaro che il peccato è solitudine e la dannazione è
solitudine portata all'acme. Solitudine che si traduce in odio lucidissimo,
fermissimo e irrevocabile.
V'è un altro
aspetto da mettere in evidenza. L'uomo, in "Adamo" e
sovrabbondantemente in Cristo, è vocato ad un rapporto col cosmo, che è insieme
di contemplazione e di misurato e gioioso dominio. Ciò dovrebbe avvenire pienamente oltre il tempo.
Questo rapporto armonico con le cose create
viene rotto mediante il peccato che è disgregazione. Diventa sopruso - sopruso
voluto - della natura sul dannato. Ciò che doveva essere motivo di letizia,
diviene motivo di sofferenza recata al sommo. Monti, cadete su di noi e seppelliteci.
Ma anche il seppellimento non è annichilazione.
La violazione di queste componenti essenziali
dell'uomo - la componente religiosa, di accoglienza di sé, di amore fraterno e
di contemplazione e dominio del cosmo - : tale violazione non è stato episodico
o passeggero nel dannato: è condizione eterna, non mutabile, non correggibile.
Per il semplice fatto che il dannato si è liberamente posto in una situazione
definitiva. E’ la disperazione senza scampo.
In termini tecnici, la teologia dei vecchi
manuali si esprimeva fermando che c'è la “pena del danno”, derivata dalla
contrapposizione a Dio, e la “pena del senso”, derivata dal contrasto con le
realtà materiali. E richiamava il “fuoco” in chiave simbolica giustamente. C'è
da stupirsi che, di solito, non prendesse in considerazione anche quella che si
potrebbe chiamare la “pena della solitudine”. Ma l'omissione è da imputare,
forse, ad una certa concezione individualistica dell'aldilà come dell'aldiquà,
si parla di queste cose con spavento. E una certa chiarezza e un certo sforzo
di riflettere sull’esperienza del peccato non fanno che accrescere lo
smarrimento, il panico.
3. Perché l'inferno?
Qualche spunto di risposta è già stato offerto
al interrogativo. Ma c'è da pensare che l’interrogativo stesso si riferisca al
nocciolo della questione. Vale a dire: come è ipotizzabile che Dio possa
permettere peccati che sono causa dell'infelicità radicale dell'uomo? Che Dio
possa castigare persone che ha creato per la felicità? Che Dio possa essere
beato a ricevere gloria dalla dannazione di coloro che erano chiamati a essere
suoi figli in Cristo? Non si rende vana la redenzione per cui il Signore Gesù è
morto? E come riescono i beati a godere della disperazione di persone che
magari sono state loro care? il caso di una mamma che vede il figlio dannato.
Ecc.
Forse è bene mettere ordine in domande che si
arruffano anche perché nascono dall'inquietudine.
Il “perché” dell'inferno non va,
probabilmente, identificato nel Dio che condanna e punisce.
Qui occorre precisare che Dio non è essere
volubile, capriccioso, che, a volta a volta, si mostrerebbe vendicativo fino al
sadismo, ho bonaccione fino alla mancanza di serietà. Dio non è neppure un
essere eccentrico è un po' avaro che dalla “massa dannata” che sarebbe
l'umanità, sceglierebbe chi vuole - pochi? - per la beatitudine, abbandonando
gli altri al loro destino, magari per la solo colpa d’origine contratta motivo
dell'unico fatto di esser venuti al mondo.
No. Dio è giusto. Purché si intende la sua
giustizia non nel senso di una parità con noi: una parità per la quale si possa
dare a ciascuno - anche a Dio – “ciò che è dovuto”, sentendosi poi a posto con
la coscienza.
La giustizia di Dio è quella di un essere trascendente
assoluto, creatore e Signore dell'universo della storia.
Ma veniamo al punto: la sua giustizia quella
di un Dio che, rimanendo trascendente, assoluto, ecc., crea per amore volendo
tutti e tutto riassumere in Cristo, anche dopo il peccato. Non è detto
impunemente: Dio vuole che il peccatore si converta e viva; Cristo ha dato la
vita per voi e per tutti, ed è venuto tra noi per salvare ciò che era perduto.
Se si vuole: la giustizia di Dio è come
inclusa è superata dall'amore e dalla misericordia. Ciò, d'altra parte, non
deve indurre ad immaginare una più attenuata esigenza nel rispondergli, quand'anche
non a immaginare una sorta di lecita svagatezza nei suoi riguardi, poiché,
tanto, egli dilige e perdona: passa sopra un poco a tutto.
Un simile modo di ragionare - di sragionare -
non è rispettoso nei di Dio, né dell'uomo.
Non di Dio, poiché non si può prendere a gabbo
una benevolenza che, in Cristo, è finita sulla croce per salvarci nella morte e
resurrezione. Contro ogni impressione superficiale, l'amore impegna maggiormente
che non la pura giustizia. Impegna maggiormente perché, mentre, misurandosi
sulla giustizia, ci si può - illusoriamente - sentire alla pari con Dio, non
più suoi debitori, non più bisognosi del suo perdono e del suo aiuto; nel caso
dell'amore, è di un amore di Dio condotto sino alla fine, non si non si
riuscirà mai a sentirsi tranquilli, a togliersi di dosso l'assillo che non si è
ancora fatto tutto per riamare a misura. Si impone una responsabilità costante
è crescente. Si impone l'umiltà di chi chiede misericordia.
Né l'amore, e singolarmente quello di Dio, è
un sentimento vago a cui si può esser fedeli con tutto e il contrario di tutto.
A ben riflettere, l'amore non è
soltanto esigente fino allo spasimo, ma è preciso fino alla minuzia. Ama e fa
ciò che vuoi, ma quando l'amore ha assunto e interiorizzato la legge fino alla
spontaneità. Un ideale, questo, da non attribuirsi troppo frettolosamente.
Detto ciò, si può almeno intravedere che l'inferno non è opera di una fantomatica ira o vendetta di Dio. Per quanto strana la cosa possa sembrare, l'inferno è fatto dall'amore. “Fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore”, è scritto sulla porta dell'Inferno dantesco. Con l'acutezza che deriva dalla fede.
Solo occorre aggiungere che l'inferno è fatto di un amore rifiutato. Il dannato, perciò, non è cacciato, separato, rinchiuso dell'inferno, oggetto di tormenti inflittigli chissà da chi. Il dannato si è autoescluso dal trepido amore di Dio che lo ha incalzato lungo la vita terrena e che persiste anche dopo.
Detto ciò, si può almeno intravedere che l'inferno non è opera di una fantomatica ira o vendetta di Dio. Per quanto strana la cosa possa sembrare, l'inferno è fatto dall'amore. “Fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore”, è scritto sulla porta dell'Inferno dantesco. Con l'acutezza che deriva dalla fede.
Solo occorre aggiungere che l'inferno è fatto di un amore rifiutato. Il dannato, perciò, non è cacciato, separato, rinchiuso dell'inferno, oggetto di tormenti inflittigli chissà da chi. Il dannato si è autoescluso dal trepido amore di Dio che lo ha incalzato lungo la vita terrena e che persiste anche dopo.
Ha consumato la colpa irremissibile in
questo secolo e nel futuro: irremissibile non Perché Dio non possa o non voglia
perdonarlo, ma perché il peccatore ostinato si è chiuso in sé stesso, non si è
lasciato amare e perdonare.
La
riflessione, perciò, deve portarsi sulla libertà umana capace di irridere un
amore che muore sulla Croce, capace di non avere misericordia di una misericordia
- quella di Dio - che non si ritrae davanti ad alcuna nefandezza. Gli altri
interrogativi possono presentare delle difficoltà. Non conducono
necessariamente ad assurdi. Dio che goda e abbia gloria dai dannati. Ma è la
libertà umana il valore sommo che Dio vuole onorare. La mamma che vede il
figlio, ecc. Anche qui, nessuno può sostituire la libertà di un altro. Ed è
prendere con serietà l'altro, il rispettarlo nelle sue decisioni. Ma chissà.
Dio non vuole degli schiavi davanti a
sé. Accanto a sé vuole dei figli liberi.
E
si potrebbe anche chiedere perché mai Dio non ha creato un'umanità che si “doveva”
interamente salvare. La risposta sarebbe, di nuovo, il rimando
alla libertà umana. Celiamo, forse, più enigmi di quanto sospettiamo.
4. l'inferno non può essere una pura ipotesi?
C’è chi; a partire dalle difficoltà
segnalate, ritiene si possa pensare che all'inferno sarebbe una pura ipotesi,
poiché non esisterebbe nessun dannato.
Che dire?
A parte gli angeli ribelli, come s’è detto, la Parola di Dio non solo non ci dà l’identità di qualche dannato, ma neppure ci assicura che ve ne siano.
Che dire?
A parte gli angeli ribelli, come s’è detto, la Parola di Dio non solo non ci dà l’identità di qualche dannato, ma neppure ci assicura che ve ne siano.
E allora?
Non pare che la volontà di Dio di salvarci tutti in Cristo sia un motivo valido per concludere che tutti si salvino. Di nuovo: la libertà umana è da prendere in considerazione.
Non pare neppure che il paradosso di una felicità di Dio dei beati per il riconoscimento della responsabilità di eventuali dannati, costringa a negare l'esistenza di dannati stessi. Non pare.
Rimane, semmai, la consapevolezza dei limiti a cui la libertà umana è sottoposta. Come può una capacità di scelta tanto fragile e condizionata, determinarsi con tutte le forze contro Dio e contro la propria felicità?
Ma anche qui, non va dimenticata nella profondità dell'amore che Dio ci ha dimostrato, né l'efficacia della redenzione che “libera” la libertà dell'uomo.
Non pare che la volontà di Dio di salvarci tutti in Cristo sia un motivo valido per concludere che tutti si salvino. Di nuovo: la libertà umana è da prendere in considerazione.
Non pare neppure che il paradosso di una felicità di Dio dei beati per il riconoscimento della responsabilità di eventuali dannati, costringa a negare l'esistenza di dannati stessi. Non pare.
Rimane, semmai, la consapevolezza dei limiti a cui la libertà umana è sottoposta. Come può una capacità di scelta tanto fragile e condizionata, determinarsi con tutte le forze contro Dio e contro la propria felicità?
Ma anche qui, non va dimenticata nella profondità dell'amore che Dio ci ha dimostrato, né l'efficacia della redenzione che “libera” la libertà dell'uomo.
Certo,
nella predicazione occorrerà evitare di esprimersi in modo tale da far
intendere che l'inferno, poco o tanto, sia popolato. E le rivelazioni private
non possono recare certezze che la Fede non offre.
Si può - forse si deve- sperare che la bontà di Dio faccia sì che tutti si salvino. E’ una posizione, questa, che oscilla tra il misticismo più alto e la possibile grettezza più meschina. Lo sperare che tutti si salvino può indurre a impostare una vita tutto sommato sconsideratamente superficiale, se non tristemente disinvolta. Può anche impegnare fino allo stremo le forze personali per rispondere a Dio e lasciarsi perdonare e amare.
Ma chi certifica che tutti si apriranno all'iniziativa di Dio?
Si può - forse si deve- sperare che la bontà di Dio faccia sì che tutti si salvino. E’ una posizione, questa, che oscilla tra il misticismo più alto e la possibile grettezza più meschina. Lo sperare che tutti si salvino può indurre a impostare una vita tutto sommato sconsideratamente superficiale, se non tristemente disinvolta. Può anche impegnare fino allo stremo le forze personali per rispondere a Dio e lasciarsi perdonare e amare.
Ma chi certifica che tutti si apriranno all'iniziativa di Dio?
A cominciare da noi stessi?
Meglio lasciare la speranza per ciò che è: senza equivocarla; senza trasformarla In fatto creduto.
E tacere, abbandonandosi al mistero di Dio.
E pregare. E poi - o innanzitutto -, sarebbe bello ritenersi personalmente certi della salvezza? Che cosa faremmo di tale sicurezza?
Meglio lasciare la speranza per ciò che è: senza equivocarla; senza trasformarla In fatto creduto.
E tacere, abbandonandosi al mistero di Dio.
E pregare. E poi - o innanzitutto -, sarebbe bello ritenersi personalmente certi della salvezza? Che cosa faremmo di tale sicurezza?
5. Si danno anticipazioni dell'inferno?
Sembra
di sì, se si pone mente al fatto che la dannazione altro non è se non la
definitività svelata della situazione di peccato.
Ma si tratta di anticipazioni certe e univoche? Il rimorso. La solitudine. La mancanza di gusto di passione nello studio nel lavoro. Ecc. Non sono condizioni di vita che si possono rivedere? Non sono condizioni di vita che addirittura possono sospingere alla conversione? “Etiam peccata”. E, poi, una tristezza può diventare insopportabile. E non bisognerà vergognarsi, se Dio ci conduce alla santità anche più sublime perché altre strade percorse hanno deluso.
Ma si tratta di anticipazioni certe e univoche? Il rimorso. La solitudine. La mancanza di gusto di passione nello studio nel lavoro. Ecc. Non sono condizioni di vita che si possono rivedere? Non sono condizioni di vita che addirittura possono sospingere alla conversione? “Etiam peccata”. E, poi, una tristezza può diventare insopportabile. E non bisognerà vergognarsi, se Dio ci conduce alla santità anche più sublime perché altre strade percorse hanno deluso.
Allora, anche la fatica della vita cristiana potrebbe apparire un mezzo per unirsi a Cristo. Finché dia qualche bagliore di letizia. E, poi, la Letizia piena. Ancora enigmi. Da lasciare tali. E da affidare all’argano di Dio. Non sappiamo tutto. Dio ci ha detto e dato quanto bastava per conoscere e sperimentare la partecipazione alla sua grazia e alla sua gloria. O meglio: ci ha dato tutto, ma non tutto ci ha detto. Siamo chiamati ad amare più di quanto conosciamo.