giovedì 29 novembre 2018

I NOVISSIMI - LA MORTE - CAPITOLO 2


I NOVISSIMI

LA MORTE

capitolo II .

1.Si può definire la morte?

Pensa e ripensa, tra tanti dubbi di teologi contemporanei, credo che la definizione ancora meno scura sia quella tradizionale nella teologia Cattolica: la morte e la separazione dell'anima dal corpo. Dà il senso dell'estraneità dell'io umano alla dimensione materiale. Consente di spiegare - per quanto si riesce - immortalità dello spirito e la futura resurrezione dell'unitotale persona. Se il morire fosse, come in una lettura protestantica, l'annientarsi dell'io umano, e se il risorgere fosse una nuova creazione dell'io umano - perché Dio solo trionfi - non si riuscirebbe a capire almeno come si possa realisticamente parlare di identità della persona che muore e risorge. Non basta - pare - la continuità nella mente e nel volere di Dio.
Ciò sia detto pure con totale aderenza all'antropologia biblica a cui Cristo si rifà. V'è, forse, ancora da studiare in proposito, di là da una certa tendenza di specialisti recenti che hanno creato una sorta di gergo accolto troppo agevolmente in questo campo. E tuttavia, nel suo rigore filosofico, nella sua precisione, nella sua pulizia, quasi nella sua eleganza, la formula tradizionale non concede quasi nulla all'esperienza. Anche perché di preciso, di pulito, di elegante, oltre i concetti, nella morte non c'è quasi nulla. Si può tentare di evocare la morte per le situazioni accostate, per esperienze intuite, per ricordi un poco sempre sfocati o per proiezioni un poco sempre esitanti.
Un noto proverbio dice: la morte è sicura; in dubbio rimangono il tempo e il modo. Si può dar torto?
La morte. Il cader delle forze. L'avvertire che il corpo non risponde più con lentezza ai comandi che ad esso si danno. Anzi, non risponde quasi più. L'avvertire, dentro, innegabile e penoso, un senso di fragilità, di disarmonia, di dissoluzione. Il doversi piegare ad una dipendenza umiliante; si è nelle mani di altri un poco in tutto: medici che parlottano appartati e non danno più la diagnosi determinata e ancor meno accennano alla prognosi, non stanno alle domande; parenti che cambiano tono delle esortazioni: si mettono sul vago con fare rassegnato; incoraggiano, ma la loro voce si rende incrinata, fessa; visite che si infittiscono o si diradano, svelte: uno sguardo, un saluto, e negli occhi si legge la sentenza. Dio non voglia che si instauri quel crudele gioco degli specchi per cui le persone attorno fingono di non sapere le condizioni del malato, che il malato stesso conosce; il malato, a sua volta, finge di non sapere le proprie condizioni, che gli altri conoscono; e si scambiano bisbigli e battute ingannandosi tormentandosi, a vicenda.
Il dolore che debilita. I sedativi che annebbiano gli occhi e la mente. Il percepire che si va al termine. Si chiamano malati "terminali", i moribondi. È linguaggio molto più asettico. Vero, ma quanto parziale.
L'accorgersi che si perdono i contorni delle persone e delle cose; giunge il momento dell'addio: dell'augurio di reincontrarsi in Dio. E cambiano i valori. Ciò che sembrava indispensabile, diventa un peso. E si affollano alla memoria ricordi arruffati, nettissimi e struggenti.
C'è bisogno di continuare? Da ragazzo mi facevan leggere delle "litanie" con particolari agghiaccianti e innegabili:le mani stanche, il sudore, il rantolo, di capelli che si raddrizzano, ecc. E non dimentico una commedia - o tragedia? - dove il protagonista persiste nell'illusione di guarire, di uscire dall'ospedale; ma ogni volta scende di piano tra i degenti più gravi.
E viene il momento in cui si è presenza assente; si è andati; non si risponde più a nessuna voce umana. Il resto è faccenda ad altri. A noi cavarsela con Dio.
Il motivo dell'indescrivibilita' della morte? Una ovvietà sconcertante: si muore una volta per tutte. E si muore soli. L'esperienza è incomunicabile. Quella degli altri, rimane degli altri.
Non si può essere soverchiamente concreti, fino ai dettagli, nel descrivere la morte, anche perché non esiste modello ideale o normale di morire. Si può pensare a lungo o essere sbalzati dalle incombenze più usuali al cospetto di Dio. Un lungo decorso di un cancro - si dica la parola - , o un incidente stradale, o un arresto cardiaco. Si può morire rinchiusi in se stessi, imprecando, o esalando flebili invocazioni che il Signore venga a prenderci; da stoici che rifiutano ogni lenimento e ogni consolazione - ma chissà -, o da credenti impauriti o agognanti, da retrattili che esigono la solitudine o da comunionali che tacitamente invocano il conforto di una parola e di una mano che tenga la mano. Si può perfino - crudelmente - supplicare che sia data la morte perché si è stanchi della vita e del penare. Ma poi? E la vita è nostra.

2. Come la fede descrive la morte?

Ignoro che cosa sarebbe stata la morte nel caso in cui non fosse entrata nel mondo col peccato. Un addormentarsi beato per ritrovarsi nella gloria? Un passaggio indolore e quasi inconscio nell'oltretempo? Ignoro, e non mi interessano troppo le ipotesi.
So che la morte quale noi siamo chiamati a sperimentare, con angosce, con timori, con sofferenze indicibili, è conseguenza della colpa d'origine e di quanto è venuto dopo.
Non occorre molto acume per capire che sono ingannevoli le pennellate un po' razionalistiche ideologiche – crudelmente candide - , che disegnano non si dice il mondo migliore possibile, ma anche soltanto un mondo non robustamente dominato dalla colpa umana e del maligno. Se si sta coi piedi per terra e non ci si lascia trasportare nel paese dei balocchi, ci si avvede di botto che siamo immersi nel male fino al collo. In modo irrimediabile, con le sole nostre forze. La solidarietà con la libera ribellione di “Adamo”.
L’inclinazione prepotente all'errore e al non valore. La “ratifica” di questa inclinazione con le scelte è personali perverse. Il consolidarsi e l’ingigantire del “peccato del mondo” il quale si affianca al Regno che pur cresce nel silenzio paziente: “peccato del mondo” che si concretizza in una situazione oggettiva, ma che è esito e, a un tempo, condizionamento della nostra libertà.
E la morte e si colloca in questo contesto come il supremo frutto amaro, come la più orrida espressione del nostro ribellarci a Dio. L'estrema nemica.
Bisogna essere consapevoli che, morendo ci si piega questa condanna che no non l'amore di Dio ci ha lanciato a modo di vendetta, ma il nostro odio a Dio ci ha inflitto. Autopuniti. Sarebbe disperante, però, so stare a questa visione realisticamente buia e greve e irredenta.
Per chi crede, la morte è stata riscattata da Dio, come è stata riscattata e rinnovata la vita. Il Dio di misericordia che ci ha creato, non ci ha abbandonato al nostro destino di dannazione. Non si è limitato a guardarci da lontano, magari distrattamente: ci ha presi tanto con serietà da inviare il suo Figlio, per amore incomprensibile, a farsi uomo come noi, a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana. Così, per vincere il nostro peccato, egli se lo è incaricato sulle spalle e l'ha portato sulla croce. Per liberarci dalla morte orrenda che era il nostro castigo, si è consegnato liberamente alla morte. Egli, Dio; l’unico uomo innocente.E ha superato la morte, risorgendo, Un Cristo che no fosse Dio, non interesserebbe più di tanti sapienti che piangono con noi anche i loro peccati. E non possiamo salvarci da soli. Un Cristo che non fosse risorto dalla nostra morte, segnerebbe una tomba in più. Ci lascerebbe nel nostro scoramento.
Non  senza sofferenze atroci egli è spirato. Sarebbe, forse, stata una beffa, una morte affrontata dal Signore Gesù con la spensieratezza e la levità di un superuomo o di un “dio” che si degnasse di cavarci d’impiccio senza lasciarsi coinvolgere nel nostro inferno. Con dilezione spontanea si è offerto al patibolo. Ma ha pianto, ha sudato sangue di panico, ha supplicato che passasse da lui quel calice; però, non la mia, ma la tua volontà sia fatta, Padre; ha rifiutato l’analgesico per assaporare fino in fondo lo scempio del dolore; ha patito l’abbandono del Padre: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed è spirato affondando nella benevolenza del Padre: tutto è compiuto; nelle tue mani consegno il mio spirito. Poi, la resurrezione, il dono del Paraclito, la Chiesa, la porta aperta del cielo.
C’è di che ringraziare il Signore Gesù per questo suo imparare l’obbedienza attraverso ciò che ha patito; e per essersi affidato alla morte con la certezza del gaudio che gli era promesso; e per averci preceduti e quasi inclusi nei suoi tormenti, fino all’obbrobrio del morire “per noi”: a nostro favore e in nostro nome.
Per quanto paradossale l’osservazione possa apparire, Cristo è stato l’unico a misurarsi e a lottare con una morte “non cristiana”.
Dopo di lui, la morte cristiana esiste nel “Vivente”. E poi siamo chiamati a seguirlo. Non certo senza patimenti, ma con la sicurezza che i dolori hanno un senso e che la morte è un passaggio, non un termine; un passaggio ad una novità sorprendente.
Così, per noi, il morire non è il piombare nell’assurdo del nulla, o il ritorno nell’eterno inconcludibile ruotare delle cose, o la ribellione al suo acme; gridata nel vuoto; o soltanto il lasciare il ricordo della fama, per ciò che essa è, o delle opere, per ciò che esse sono. Corte vedute. Povere consolazioni. Tristi rivalse.
Per chi crede, il morire non è vicenda da consumarsi in una solitudine accasciata. E’ rispondere ad una chiamata e a una trepida attesa di Dio; dall’altra sponda del fiume del tempo. E’, in termini più corposi, un nascere di nuovo ad una vita perenne.
Di più. Il morire è l’estremo unirsi al Signore Gesù nel suo libero affondare nel mistero di Dio.
Unirsi al signore Gesù e partecipare al suo dono d’amore e alla salvezza di tutti.
Un intreccio di sofferenze e di gioia, di paure e di speranza, di castigo e di dono, di gemiti e di invocazioni, di solitudine e di comunione, di frustrazione e di magnanimità, di soffocamento e di liberazione, di costrizione e di libertà, di lotta e di offerta, di sconfitta e di vittoria. E, varcato il passo del tempo, tutto si chiarisce e si semplifica.
La morte va lasciata in questa sua ambiguità. E’ un groviglio che un altro dipanerà. Un groviglio che anche noi dipaneremo, perché, al fondo, si sceglie e si decide la morte che si vuole.

3. Come prepararsi a morire?
Vivendo. Vivendo come si desidererebbe morire. Badando a ciò che veramente vale e a ciò che non, in quel momento. Sopportando le prove dell’esistenza come avvìo e apprendistato. Cogliendo gli sprazzi di letizia come vigilia di ciò che sarà. Impegnandoci a lasciare il mondo un po’ meglio di come l’abbiamo trovato, poiché anche il mondo entrerà nel passaggio che sbocca di là. Dìligendo i fratelli, poiché anch’essi sono chiamati ad essere, con noi, in una compagnia felice, senza screzi, senza incomprensioni, senza scarti di comunione.
Pregando, soprattutto. Il contatto con Dio è la più limpida anticipazione della morte.
E’ quanto suggerire che ci si prepara a morire con tutto ciò che si è e si fa. Avvertendo l’anelito d’andare oltre la provvisorietà. Coltivando il gusto di Dio e l’attenzione ai fratelli. Contemplando e dominando le cose. Il lavoro non è estraneo alla morte. E’ una favola sciocca quella di chi sentenzia che il pensiero della morte distoglie dalle responsabilità terrene, tutt’altro. Stimando le cose e gli avvenimenti con il giudizio di Dio. Cambia tutto.
E bisognerà esser pronti ad ogni istante. Essere in grazia di Dio. Vivere in unione con Cristo perché ci si possa unire ancora più profondamente a lui.
Occorre predisporsi in modo tale che, quando ci si trova alla porta dell’eternità, si sia monti a consegnarsi a Dio, con il signore Gesù, per ciò che si è. Semplicemente va dato tutto. Con umiltà, dal momento che non si ha più nulla da difendere. Con fiducia, dal momento che non si hanno vanti da presentare e urge un’acuta insopprimibile esigenza, dal momento che non si sfugge alla legge, ma la legge va interiorizzata il più possibile quasi fino a farla coincidere con una docilità libertà che desidera, invoca, anela.
Se poi si vuol programmare la prossimità della morte, bisognerà non avanzare eccessive pretese. Si farà ciò che Dio vorrà nella sua benevolenza.
Uno può desiderare una morte magari faticosa, ma cosciente, non provvisoria. “Dalla morte inconsapevole e improvvisa liberaci, o Signore”.
In casa, e non nell’isolamento di un ospedale. Attorniato da parenti e amici. Gradirebbe di dire le poche parole che contano e che riassumono un’esistenza. Gradirebbe di venir ascoltato senza provocare timori o fastidi. Gradirebbe di esser aiutato a morire non con dotte lezioni, ma con la prossimità di un affetto che nasce dalla fede. Una morte preparata con una confessione generale, così che il perdono di Dio scenda su tutto, su tutto. Con l’unzione degli infermi che lenisca il dolore e sostenga nell’agonia. O almeno dia la forza di sopportare. Col viatico che è il pane del cammino senza ritorno nel mistero, e segna la compenetrazione più intima con Cristo. Con il rosario in mano, perché la Madonna renda meno aspro il passo. Quante volte si è detto: “Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”. E’ il caso. Con le fotografie dei suoi morti davanti, così da chiamarli perché ci vengono incontro e ci accompagnino. Con la consapevolezza di star morendo. Magari con il coraggio di parlare della propria morte e di ciò che attende dopo, con le persone che assistono e fanno visita. Magari con sulle labbra e nel cuore l’invocazione a morire, poiché tutto è pronto e “Vieni, Signore Gesù”. Il resto non conta.
Uno può desiderare questo e altro. Senza lasciarsi prendere dall’idillio. Ragionar di morte, magari in momenti felici, è abissalmente lontano dal morire.
Ma, alla fine, deve accettare la morte che il Signore gli manda, o trepidamente gli dona. L’importante è che il cuore sia disposto, se non a cantare l’alleluia, almeno a dire un grazie sommesso, o un amen che è pura rassegnazione.
Non si fa della poesia zoppicante su eventi ignoti e drammatici. Né ci si attribuisce senza batter ciglio atteggiamenti e frasi di santi. “Muoio, Dio, perché non muoio”. “Sorella morte corporale”. Ecc. Si vedrà nei fatti. La santità non si improvvisa. E ce n’è di quella per nulla pacata. Si rasserenerà, e forse sta avvertendo per la prima volta la verità della pagina del Getsemani.
Nella lotta finale, vale il “E adesso, a noi due”.
Si combatte con Dio tutta la notte, per farsi da lui benedire, al mattino.

mercoledì 28 novembre 2018

I NOVISSIMI - ATTUALITA' DELLE ULTIME COSE - CAPITOLO 1


I NOVISSIMI

ATTUALITA’ DELLE “ULTIME COSE”

Capitolo 1
    Che cosa significa “novissimi”?

Forse è bene iniziare da qui. Poiché son molti che deprecano la vecchia catechesi, ma che non la ricordano più neppur vagamente; o non l’hanno mai né studiata né leggicchiata.
E una certa catechesi recente glissa, spicca, su questi temi. Forse per non spaventare, si assicura talvolta. Forse perché sono argomenti che toccano da vicino.
In latino, “novus” significa ultimo.
Novissimus  è lo stesso termine al superlativo: ultimissimo.
E così, con un neutro plurale: “novissima”, si  indicano le realtà supreme, quelle che avvengono al termine della vita di ogni uomo e al concludersi della storia.
Probabilmente, è equivoco parlare di “cose” definitive.
Più che “cose”, sono avvenimenti. E più che avvenimenti che si compiono attorno a noi, accanto a noi, tangenzialmente a noi; siamo noi stessi che viviamo i momenti conclusivi.
Siamo in gioco senza possibilità di delegazione.

1.   Perché parlare dei “novissimi”?
Verrebbe da rispondere: perché nessuno ne parla più, o quasi.
E non sarebbe motivazione da “bastian contrari”.
Il fatto è che l’intera produzione culturale (o sub culturale) di oggi, tacitamente, elegantemente, drasticamente proibisce di pensare a ciò che verrà. Censura anche le domande in proposito. Vietato mettere il tema sul tappeto. Vietato interrogare in questo campo. E’ segno di scorrettezza, di mancanza di educazione, di inurbanità imperdonabile.
La morte spettacolo. O la morte come “ovvietà”.
Uno se n’è andato. Poverino, ha sofferto? E il discorso si tronca qui. Il fastidio dell’assistenza è passato; e, se si è riusciti, si sono incaricati altri, gli “esperti”, pagati, com’è giusto. Non una curiosità sul “come” uno è morto: se si è preparato al passo; se era cosciente; se ha ricevuto i sacramenti; se si è spento con l’invocazione del Signore sulle labbra, o bestemmiando. E via il lutto. Roba vecchia. Chi è vivo si dà pace. Non bisogna rattristarsi, anche se il cuore si torce dal dolore. Le lacrime in privato, per favore. Ci sono gli affari da portare avanti. C’è la televisione che aiuta a dimenticare. Occorre fingere d’essere immortali.
Ecco, di fronte ad una mentalità così ottusa e refrattaria, vien voglia di smascherare la paura, se paura dev’essere.
E poi, bisogna parlare dei “novissimi” perché davvero si cambia vita, se si sa di dover morire e comparire davanti a Dio nudi come bruchi.
Non si portan di là né commende, n’è carte di credito, né prestito, né la “roba”. Ci si va tali e quali si è. Come si è voluti essere. Senz’altro che col cuore Aperto alla misericordia, o indurito come un masso. Dopo aver ascoltato mille volte l’esortazione secondo la quale val più l’essere che l’avere, viene il momento in cui la frase si impone come verità.
La vita, questa terrena, diviene più pacata e vigilante, più libera e disposta a soffrire, più lieta e fantasiosa anche, se si prevede e si prepara la fine, se ci si arrende a lasciarsi leggere dentro senza infingimenti, se si è pronti a rispondere alle domande che ci verranno poste e di cui già si possiede il formulare preciso, pulito e solenne.
Si potrebbe anche dire che si considerano i “novissimi” semplicemente perché ci sono; o meglio, perché ci siamo noi che al termine della vita troviamo un giorno senza domani: o con un domani ineluttabile e da riscattare dalla sua enigmaticità.

   2.   Come parlare dei “novissimi”?
Non necessariamente con tono funereo e terrificato.
Forse è da ammettere lealmente che non si riflette mai sui “novissimi senza un fremito. I dolori che accompagnano il passaggio. Sapremo affrontarli senza disperare? La solitudine. Avremo qualche persona che ci terrà la mano e vorrà ascoltare la nostra voce affievolita? Riusciremo a trovare il coraggio e la semplicità di conversare sui nostri timori e sulla nostra attesa? E, poi, la triste abissale furbizia che abbiamo nell’ingannarci. Vi son tratti o istanti di vita che riusciamo a “rimuovere” tanto astutamente, come se non ci fossero stati, come se non ci saranno, mentre dovrebbero lasciar spazio alla benevolenza di Dio che invade.
E, tuttavia, senza essere né autolesionisti né santi, su può giungere a chiamare la morte, cioè a chiamare il Signore che ci venga a prendere, ad avvertire uno struggente desiderio di incontrare ancora e per sempre persone che abbiamo amato. Quando i fratelli di strada ci lasciano. Quando il mondo si appanna o si affloscia come uno scenario stinto e mal sorretto. Quando le smanie e le ambizioni che sembravano dover cambiare l’universo si svelano nella loro inanità. Quando la comunione col Signore non tollera più le oscurità e le vertigini e le mediazioni.
Sia chiaro: senza morbosamente lasciarsi vivere e morire. Continuando, piuttosto, il proprio lavoro con impegno: un impegno appassionato e distaccato a un tempo. Poiché si avverte: un conto è discettare di croce, e un altro conto è salirvi; ma il cammino è obbligato. Non si sfugge. Tanto vale. Magari tremando.


martedì 27 novembre 2018

MODA INDECENTE ALTRA OCCASIONE DI PECCATO


MODA INDECENTE ALTRA 
OCCASIONE DI PECCATO

Padre Pio non aveva nulla contro la cura della persona. Al mattino, dopo essersi lavato, prima di scendere in Chiesa per celebrare la Santa Messa, col pettine si riavviava i capelli e metteva un po’ in ordine la sua barba incolta. Egli, che ci teneva tanto alla santa povertà, indossava spesso il saio rammendato e rappezzato, ma voleva che fosse ben pulito.
Ordine, pulizia, dignità voleva nell’abbigliamento dei suoi figli spirituali.
Ci confida Enzo Bertani, che è stato a lungo uno dei responsabili dell’amministrazione di Casa Sollievo della Sofferenza: “Avevo bisogno di un vestito nuovo ed, essendo terziario francescano, non volevo spendere molto. Prima di fare quella spesa dissi al nostro padre spirituale: Padre, vorrei essere più povero nei miei abiti.
Ma Padre Pio rispose: Tu sei a quel posto e ti devi vestire decorosamente. In ciò non devi avere alcuno scrupolo.
Ed in un’altra circostanza analoga, in cui Enzo voleva guardare al risparmio nel comprare un paio di scarpe, il Padre disse: Prendi le buone, così ti durano di più.
La signora Rina Giostrelli, che aveva sposato il conte Telfener, scelto dal Padre come uno dei suoi collaboratori nella realizzazione del suo ospedale, attesta: Durante l’ultimo conflitto mondiale non si aveva la possibilità di comprare lana o filo per fare le calze. Noi sfilavamo i merletti e, col filo ricuperato, facevamo anche delle pantofole o scarpine.
Un giorno Padre Pio mi vide ai piedi quei arnesi e mi disse: Devi andare vestita in modo dignitoso; bisogna farlo, lo devi fare anche per tuo marito. Se io indossassi un saio lacero, non farei fare a San Francesco una bella figura.
Quando “una ragazza che vestiva in modo sciatto andò a lagnarsi dal Santo perché non trovava marito, il Padre, che la vedeva così malconcia, sbottò in un infrenabile: Figlia mia, e acconciati nù poco.
Il Padre, che in tutto esprimeva sempre tanto equilibrio, voleva che nell’abbigliamento i suoi figli spirituali mostrassero di avere anche buon senso.
Ci dice ancora la signora Rina Giostrelli: “Nei primi tempi, quando con mio marito mi sono trasferita a san Giovanni Rotondo, usavo un cappellino. Padre Pio, nel vederlo la prima volta, mi guardò con un certo sorrisetto ironico. E questo si ripeté una, due e tre volte; poi, vedendo che non capivo, un giorno mi disse: Ma tu credi di essere più bella con quell’affare sulla testa?. Lo smisi subito”.
Il Padre le fece capire inoltre che altro era andare al teatro ed altro era muoversi in convento o stare in Chiesa.
Un’alta volta fu molto più duro. Ad una donna, che portava un cappello con una lunga penna e che sostava presso il suo confessionale, Padre Pio disse: Tu vatti a confessare dal diavolo.
Non sappiamo se il Santo avesse letto altro in quell’anima. Probabilmente sì.
Ma al Padre stava a cuore soprattutto la modestia nel vestire, dovunque si vivesse. Il motivo di questa preoccupazione del santo era che un modo di vestire indecente può costituire scandalo, cioè occasione prossima di peccato per un fratello.
“Lo scandalo – recita il Catechismo – è l’atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male. Chi scandalizza si fa tentatore del suo prossimo. Attenta alla virtù e alla rettitudine; può trascinare il proprio fratello alla morte spirituale. Lo scandalo costituisce una colpa grave, se chi lo provoca con azione o omissione induce deliberatamente altri in una grave mancanza” (n.2284). E va rivelato che si macchia dello stesso peccato anche chi offre occasione di peccato con un atteggiamento, ove non si rivela un’avvertita intenzione cattiva.
Gesù dice: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28).
Certo, il peccato è da imputare alla malizia dell’uomo, ma la donna può essere colpevole “in causa”, perché è lei ad offrire l’incentivo ed il pretesto per il peccato.
Scandalo è una parola mutuata dal greco e significa “inciampo”, “intralcio”. E’ come un bastone che si getta tra i piedi di uno che corre: questi inciampa e cade.
La morte spirituale può arrivare attraverso gli occhi!
Ad una signora, moglie di un console, presentata da Padre Carmelo da Sessano, il Santo, vedendola con le braccia nude, disse: Ti taglierei le braccia, perché soffriresti molto meno di quanto soffrirai in purgatorio.
In un’altra circostanza disse: Le carni nude bruceranno.
Un giorno mandò una figlia spirituale a dire ad una donna, che in Chiesa stava con le gambe accavallate, di mettersi in un atteggiamento composto.
Nell’abbigliamento poi delle sue figlie spirituali non ammetteva la minima sbavatura. Ci dice Lucietta Pennelli.
“Una volta sono andata in Chiesa con un bel vestito nuovo, che aveva una leggera scollatura, dovuta non tanto ad un modello creato dalla sarta quanto ad uno sbaglio di taglio poi rimediato.
Padre Pio mi vide e chiese: Chi ti ha fatto quel vestito?
Graziella Cascavilla, risposi. Da notare che anche la sarta era una figlia spirituale del Padre.
Non lo mettere più, replicò il Santo.
A me dispiaceva gettarlo ed allora mi venne l’idea di usare una sciarpa per coprire la scollatura. La Domenica sono andata ad ascoltare la Messa del Padre, che mi diede anche la comunione, ma, disse: Questa mattina nel darti la particola Padre Pio ti ha guardata insistentemente.
Io capii. Qualche giorno dopo andai a confessarmi; il Padre appena aprì lo sportello mi disse: Credi proprio di potermi prendere ingiro?
Padre, che dite?, risposi.
Con quell’arcobaleno che ti sei messo intorno al collo non copri proprio niente. Ti ho detto di non mettere più quel vestito!.
Ma Padre, lo posso buttare? E’ nuovo!.
Ed allora mettici una pezza, concluse il Santo.
Due ragazze di San Marco in Lamis, che frequentavano la scuola infermieri di Casa Sollievo della Sofferenza. Si erano prenotate per confessarsi, ma, portando quasi abitualmente la mini gonna, pensarono che così vestite non si potevano di certo presentare al confessionale del Padre.
Ricorsero allora ad un piccolo espediente.
Prima di andare in convento, passarono in convitto per prendere in prestito dalle compagne un vestito più lungo. Dopo aver indossato quegli abiti per loro inusuali, rimirandosi allo specchio si dissero l’una all’altra: Sembriamo proprio dei pagliacci.
Così abbigliate, andarono in Chiesa e si misero in fila per aspettare di essere chiamate.
Poco dopo arrivò Padre Pio; soffermandosi alquanto, le guardò ed, al confratello addetto alla vigilanza del turno, disse: quelle due pagliacce io non le confesso.
Padre Pio più di una volta diede del pagliaccio a chi si vestiva da immodesto.
Anche nell’uso dei cosmetici il Padre voleva che le donne usassero un po’ di misura.
Un giorno nel ritirarsi in camera, dopo aver distribuito la comunione, si ritrovò il pollice e l’indice della mano destra macchiati di rossetto. E, mostrando le dita ai confratelli, riprovava l’eccesso nel curarsi da parte delle donne. E diceva: Distribuisci la comunione e ti imbratti le dita; e poi imbratti le labbra di chi viene subito dopo.
Intervenne Padre Marcello Lepore: Ma, Padre, è ormai uso comune tra le donne. Tutte lo mettono il rossetto.
E Padre Pio: Ecco la giustificazione: tutte fanno così. Voi, ragionando in questo modo, siete la rovina della Chiesa.
Ma che dobbiamo fare cacciarle?, ribatte il confratello.
Qualche volta sì, rispose il Padre.
Noi non lo possiamo fare. Se cacciate voi, la gente ritorna, se lo facciamo noi, non ritorna più.
E Padre Pio: Meglio poca gente convinta che tanta gente senza fede.
“Oggi molti dicono che i tempi sono cambiati, ma i tempi li cambiamo noi, non vengono da sé, è l’uomo ha cambiare i tempi”.
La Madonna di Fatima disse in un messaggio : "I peccati che portano più anime all'inferno sono i peccati della carne.
"Verranno certe mode che offenderanno molto Gesù.
"Le persone che servono Dio non devono seguire la moda.             La Chiesa non ha mode. Gesù è sempre lo stesso.
"I peccati del mondo sono molto grandi.
"Se gli uomini sapessero ciò che è l'Eternità, farebbero di tutto per cambiar vita.
"Gli uomini si perdono, perché non pensano alla morte di Gesù e non fanno penitenza.
"Molti matrimoni non sono buoni, non piacciono a Gesù non sono di Dio".