I
NOVISSIMI
ATTUALITA’ DELLE “ULTIME
COSE”
Capitolo 1
Che cosa significa “novissimi”?
Forse è bene iniziare da qui. Poiché son molti che deprecano la
vecchia catechesi, ma che non la ricordano più neppur vagamente; o non l’hanno
mai né studiata né leggicchiata.
E una certa catechesi recente glissa, spicca, su questi temi.
Forse per non spaventare, si assicura talvolta. Forse perché sono argomenti che
toccano da vicino.
In latino, “novus”
significa ultimo.
Novissimus è lo stesso termine al superlativo:
ultimissimo.
E così, con un neutro plurale: “novissima”, si indicano le realtà supreme, quelle che
avvengono al termine della vita di ogni uomo e al concludersi della storia.
Probabilmente,
è equivoco parlare di “cose” definitive.
Più che “cose”, sono avvenimenti. E più che avvenimenti che
si compiono attorno a noi, accanto a noi, tangenzialmente a noi; siamo noi
stessi che viviamo i momenti conclusivi.
Siamo in
gioco senza possibilità di delegazione.
1.
Perché parlare dei “novissimi”?
Verrebbe da rispondere: perché nessuno ne parla più, o quasi.
E non sarebbe motivazione da “bastian contrari”.
Il fatto è che l’intera produzione culturale (o sub culturale)
di oggi, tacitamente, elegantemente, drasticamente proibisce di pensare a ciò
che verrà. Censura anche le domande in proposito. Vietato mettere il tema sul
tappeto. Vietato interrogare in questo campo. E’ segno di scorrettezza, di
mancanza di educazione, di inurbanità imperdonabile.
La morte
spettacolo. O la morte come “ovvietà”.
Uno se n’è andato. Poverino, ha sofferto? E il discorso si
tronca qui. Il fastidio dell’assistenza è passato; e, se si è riusciti, si sono
incaricati altri, gli “esperti”, pagati, com’è giusto. Non una curiosità sul “come”
uno è morto: se si è preparato al passo; se era cosciente; se ha ricevuto i
sacramenti; se si è spento con l’invocazione del Signore sulle labbra, o
bestemmiando. E via il lutto. Roba vecchia. Chi è vivo si dà pace. Non bisogna
rattristarsi, anche se il cuore si torce dal dolore. Le lacrime in privato, per
favore. Ci sono gli affari da portare avanti. C’è la televisione che aiuta a
dimenticare. Occorre fingere d’essere immortali.
Ecco, di fronte ad una mentalità così ottusa e refrattaria,
vien voglia di smascherare la paura, se paura dev’essere.
E poi, bisogna parlare dei “novissimi” perché davvero si
cambia vita, se si sa di dover morire e comparire davanti a Dio nudi come
bruchi.
Non si portan di là né commende, n’è carte di credito, né prestito,
né la “roba”. Ci si va tali e quali si è. Come si è voluti essere. Senz’altro
che col cuore Aperto alla misericordia, o indurito come un masso. Dopo aver
ascoltato mille volte l’esortazione secondo la quale val più l’essere che l’avere,
viene il momento in cui la frase si impone come verità.
La vita, questa terrena, diviene più pacata e vigilante, più
libera e disposta a soffrire, più lieta e fantasiosa anche, se si prevede e si
prepara la fine, se ci si arrende a lasciarsi leggere dentro senza infingimenti,
se si è pronti a rispondere alle domande che ci verranno poste e di cui già si
possiede il formulare preciso, pulito e solenne.
Si potrebbe anche dire che si considerano i “novissimi”
semplicemente perché ci sono; o meglio, perché ci siamo noi che al termine
della vita troviamo un giorno senza domani: o con un domani ineluttabile e da
riscattare dalla sua enigmaticità.
2.
Come parlare dei “novissimi”?
Non
necessariamente con tono funereo e terrificato.
Forse è da ammettere lealmente che non si riflette mai sui “novissimi
senza un fremito. I dolori che accompagnano il passaggio. Sapremo affrontarli
senza disperare? La solitudine. Avremo qualche persona che ci terrà la mano e
vorrà ascoltare la nostra voce affievolita? Riusciremo a trovare il coraggio e
la semplicità di conversare sui nostri timori e sulla nostra attesa? E, poi, la
triste abissale furbizia che abbiamo nell’ingannarci. Vi son tratti o istanti
di vita che riusciamo a “rimuovere” tanto astutamente, come se non ci fossero
stati, come se non ci saranno, mentre dovrebbero lasciar spazio alla
benevolenza di Dio che invade.
E, tuttavia, senza essere né autolesionisti né santi, su può
giungere a chiamare la morte, cioè a chiamare il Signore che ci venga a
prendere, ad avvertire uno struggente desiderio di incontrare ancora e per
sempre persone che abbiamo amato. Quando i fratelli di strada ci lasciano.
Quando il mondo si appanna o si affloscia come uno scenario stinto e mal
sorretto. Quando le smanie e le ambizioni che sembravano dover cambiare l’universo
si svelano nella loro inanità. Quando la comunione col Signore non tollera più
le oscurità e le vertigini e le mediazioni.
Sia chiaro: senza morbosamente lasciarsi vivere e morire.
Continuando, piuttosto, il proprio lavoro con impegno: un impegno appassionato
e distaccato a un tempo. Poiché si avverte: un conto è discettare di croce, e
un altro conto è salirvi; ma il cammino è obbligato. Non si sfugge. Tanto vale.
Magari tremando.