I NOVISSIMI
LA MORTE
capitolo II .
1.Si può definire la morte?
Pensa e ripensa, tra tanti dubbi di teologi
contemporanei, credo che la definizione ancora meno scura sia quella
tradizionale nella teologia Cattolica: la morte e la separazione dell'anima dal
corpo. Dà il senso dell'estraneità dell'io umano alla dimensione materiale.
Consente di spiegare - per quanto si riesce - immortalità dello spirito e la
futura resurrezione dell'unitotale persona. Se il morire fosse, come in una
lettura protestantica, l'annientarsi dell'io umano, e se il risorgere fosse una
nuova creazione dell'io umano - perché Dio solo trionfi - non si riuscirebbe a
capire almeno come si possa realisticamente parlare di identità della persona
che muore e risorge. Non basta - pare - la continuità nella mente e nel volere
di Dio.
Ciò sia detto pure con totale aderenza
all'antropologia biblica a cui Cristo si rifà. V'è, forse, ancora da studiare
in proposito, di là da una certa tendenza di specialisti recenti che hanno
creato una sorta di gergo accolto troppo agevolmente in questo campo. E
tuttavia, nel suo rigore filosofico, nella sua precisione, nella sua pulizia,
quasi nella sua eleganza, la formula tradizionale non concede quasi nulla
all'esperienza. Anche perché di preciso, di pulito, di elegante, oltre i
concetti, nella morte non c'è quasi nulla. Si può tentare di evocare la morte
per le situazioni accostate, per esperienze intuite, per ricordi un poco sempre
sfocati o per proiezioni un poco sempre esitanti.
Un noto proverbio dice: la morte è sicura; in dubbio
rimangono il tempo e il modo. Si può dar torto?
La morte. Il cader delle forze. L'avvertire che il
corpo non risponde più con lentezza ai comandi che ad esso si danno. Anzi, non
risponde quasi più. L'avvertire, dentro, innegabile e penoso, un senso di
fragilità, di disarmonia, di dissoluzione. Il doversi piegare ad una dipendenza
umiliante; si è nelle mani di altri un poco in tutto: medici che parlottano
appartati e non danno più la diagnosi determinata e ancor meno accennano alla
prognosi, non stanno alle domande; parenti che cambiano tono delle esortazioni:
si mettono sul vago con fare rassegnato; incoraggiano, ma la loro voce si rende
incrinata, fessa; visite che si infittiscono o si diradano, svelte: uno
sguardo, un saluto, e negli occhi si legge la sentenza. Dio non voglia che si
instauri quel crudele gioco degli specchi per cui le persone attorno fingono di
non sapere le condizioni del malato, che il malato stesso conosce; il malato, a
sua volta, finge di non sapere le proprie condizioni, che gli altri conoscono;
e si scambiano bisbigli e battute ingannandosi tormentandosi, a vicenda.
Il dolore che debilita. I sedativi che annebbiano gli
occhi e la mente. Il percepire che si va al termine. Si chiamano malati
"terminali", i moribondi. È linguaggio molto più asettico. Vero, ma
quanto parziale.
L'accorgersi che si perdono i contorni delle persone e
delle cose; giunge il momento dell'addio: dell'augurio di reincontrarsi in Dio.
E cambiano i valori. Ciò che sembrava indispensabile, diventa un peso. E si
affollano alla memoria ricordi arruffati, nettissimi e struggenti.
C'è bisogno di continuare? Da ragazzo mi facevan
leggere delle "litanie" con particolari agghiaccianti e innegabili:le
mani stanche, il sudore, il rantolo, di capelli che si raddrizzano, ecc. E non
dimentico una commedia - o tragedia? - dove il protagonista persiste
nell'illusione di guarire, di uscire dall'ospedale; ma ogni volta scende di
piano tra i degenti più gravi.
E viene il momento in cui si è presenza assente; si è
andati; non si risponde più a nessuna voce umana. Il resto è faccenda ad altri.
A noi cavarsela con Dio.
Il motivo dell'indescrivibilita' della morte? Una
ovvietà sconcertante: si muore una volta per tutte. E si muore soli.
L'esperienza è incomunicabile. Quella degli altri, rimane degli altri.
Non si può essere soverchiamente concreti, fino ai
dettagli, nel descrivere la morte, anche perché non esiste modello ideale o
normale di morire. Si può pensare a lungo o essere sbalzati dalle incombenze
più usuali al cospetto di Dio. Un lungo decorso di un cancro - si dica la
parola - , o un incidente stradale, o un arresto cardiaco. Si può morire
rinchiusi in se stessi, imprecando, o esalando flebili invocazioni che il
Signore venga a prenderci; da stoici che rifiutano ogni lenimento e ogni
consolazione - ma chissà -, o da credenti impauriti o agognanti, da retrattili
che esigono la solitudine o da comunionali che tacitamente invocano il conforto
di una parola e di una mano che tenga la mano. Si può perfino - crudelmente -
supplicare che sia data la morte perché si è stanchi della vita e del penare.
Ma poi? E la vita è nostra.
2. Come la fede descrive la morte?
Ignoro che cosa sarebbe stata la morte nel caso in cui
non fosse entrata nel mondo col peccato. Un addormentarsi beato per ritrovarsi
nella gloria? Un passaggio indolore e quasi inconscio nell'oltretempo? Ignoro,
e non mi interessano troppo le ipotesi.
So che la morte quale noi siamo chiamati a
sperimentare, con angosce, con timori, con sofferenze indicibili, è conseguenza
della colpa d'origine e di quanto è venuto dopo.
Non occorre molto acume per capire che sono
ingannevoli le pennellate un po' razionalistiche ideologiche – crudelmente candide
- , che disegnano non si dice il mondo migliore possibile, ma anche soltanto un
mondo non robustamente dominato dalla colpa umana e del maligno. Se si sta coi
piedi per terra e non ci si lascia trasportare nel paese dei balocchi, ci si
avvede di botto che siamo immersi nel male fino al collo. In modo irrimediabile,
con le sole nostre forze. La solidarietà con la libera ribellione di “Adamo”.
L’inclinazione prepotente all'errore e al non valore.
La “ratifica” di questa inclinazione con le scelte è personali perverse. Il
consolidarsi e l’ingigantire del “peccato del mondo” il quale si affianca al
Regno che pur cresce nel silenzio paziente: “peccato del mondo” che si concretizza
in una situazione oggettiva, ma che è esito e, a un tempo, condizionamento
della nostra libertà.
E la morte e si colloca in questo contesto come il supremo
frutto amaro, come la più orrida espressione del nostro ribellarci a Dio. L'estrema
nemica.
Bisogna essere consapevoli che, morendo ci si piega
questa condanna che no non l'amore di Dio ci ha lanciato a modo di vendetta, ma
il nostro odio a Dio ci ha inflitto. Autopuniti. Sarebbe disperante, però, so
stare a questa visione realisticamente buia e greve e irredenta.
Per chi crede, la morte è stata riscattata da Dio,
come è stata riscattata e rinnovata la vita. Il Dio di misericordia che ci ha
creato, non ci ha abbandonato al nostro destino di dannazione. Non si è
limitato a guardarci da lontano, magari distrattamente: ci ha presi tanto con
serietà da inviare il suo Figlio, per amore incomprensibile, a farsi uomo come
noi, a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana. Così,
per vincere il nostro peccato, egli se lo è incaricato sulle spalle e l'ha
portato sulla croce. Per liberarci dalla morte orrenda che era il nostro
castigo, si è consegnato liberamente alla morte. Egli, Dio; l’unico uomo
innocente.E ha superato la morte, risorgendo, Un Cristo che no fosse Dio, non
interesserebbe più di tanti sapienti che piangono con noi anche i loro peccati.
E non possiamo salvarci da soli. Un Cristo che non fosse risorto dalla nostra
morte, segnerebbe una tomba in più. Ci lascerebbe nel nostro scoramento.
Non senza
sofferenze atroci egli è spirato. Sarebbe, forse, stata una beffa, una morte
affrontata dal Signore Gesù con la spensieratezza e la levità di un superuomo o
di un “dio” che si degnasse di cavarci d’impiccio senza lasciarsi coinvolgere
nel nostro inferno. Con dilezione spontanea si è offerto al patibolo. Ma ha
pianto, ha sudato sangue di panico, ha supplicato che passasse da lui quel
calice; però, non la mia, ma la tua volontà sia fatta, Padre; ha rifiutato l’analgesico
per assaporare fino in fondo lo scempio del dolore; ha patito l’abbandono del
Padre: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed è spirato affondando
nella benevolenza del Padre: tutto è compiuto; nelle tue mani consegno il mio
spirito. Poi, la resurrezione, il dono del Paraclito, la Chiesa, la porta
aperta del cielo.
C’è di che ringraziare il Signore Gesù per questo suo
imparare l’obbedienza attraverso ciò che ha patito; e per essersi affidato alla
morte con la certezza del gaudio che gli era promesso; e per averci preceduti e
quasi inclusi nei suoi tormenti, fino all’obbrobrio del morire “per noi”: a
nostro favore e in nostro nome.
Per quanto paradossale l’osservazione possa apparire,
Cristo è stato l’unico a misurarsi e a lottare con una morte “non cristiana”.
Dopo di lui, la morte cristiana esiste nel “Vivente”.
E poi siamo chiamati a seguirlo. Non certo senza patimenti, ma con la sicurezza
che i dolori hanno un senso e che la morte è un passaggio, non un termine; un
passaggio ad una novità sorprendente.
Così, per noi, il morire non è il piombare nell’assurdo
del nulla, o il ritorno nell’eterno inconcludibile ruotare delle cose, o la
ribellione al suo acme; gridata nel vuoto; o soltanto il lasciare il ricordo
della fama, per ciò che essa è, o delle opere, per ciò che esse sono. Corte
vedute. Povere consolazioni. Tristi rivalse.
Per chi crede, il morire non è vicenda da consumarsi
in una solitudine accasciata. E’ rispondere ad una chiamata e a una trepida
attesa di Dio; dall’altra sponda del fiume del tempo. E’, in termini più corposi,
un nascere di nuovo ad una vita perenne.
Di più. Il morire è l’estremo unirsi al Signore Gesù
nel suo libero affondare nel mistero di Dio.
Unirsi al signore Gesù e partecipare al suo dono d’amore
e alla salvezza di tutti.
Un intreccio di sofferenze e di gioia, di paure e di
speranza, di castigo e di dono, di gemiti e di invocazioni, di solitudine e di
comunione, di frustrazione e di magnanimità, di soffocamento e di liberazione,
di costrizione e di libertà, di lotta e di offerta, di sconfitta e di vittoria.
E, varcato il passo del tempo, tutto si chiarisce e si semplifica.
La morte va lasciata in questa sua ambiguità. E’ un
groviglio che un altro dipanerà. Un groviglio che anche noi dipaneremo, perché,
al fondo, si sceglie e si decide la morte che si vuole.
3. Come prepararsi a morire?
Vivendo.
Vivendo come si desidererebbe morire. Badando a ciò che veramente vale e a ciò
che non, in quel momento. Sopportando le prove dell’esistenza come avvìo e
apprendistato. Cogliendo gli sprazzi di letizia come vigilia di ciò che sarà.
Impegnandoci a lasciare il mondo un po’ meglio di come l’abbiamo trovato,
poiché anche il mondo entrerà nel passaggio che sbocca di là. Dìligendo i
fratelli, poiché anch’essi sono chiamati ad essere, con noi, in una compagnia
felice, senza screzi, senza incomprensioni, senza scarti di comunione.
Pregando,
soprattutto. Il contatto con Dio è la più limpida anticipazione della morte.
E’
quanto suggerire che ci si prepara a morire con tutto ciò che si è e si fa.
Avvertendo l’anelito d’andare oltre la provvisorietà. Coltivando il gusto di
Dio e l’attenzione ai fratelli. Contemplando e dominando le cose. Il lavoro non
è estraneo alla morte. E’ una favola sciocca quella di chi sentenzia che il
pensiero della morte distoglie dalle responsabilità terrene, tutt’altro.
Stimando le cose e gli avvenimenti con il giudizio di Dio. Cambia tutto.
E
bisognerà esser pronti ad ogni istante. Essere in grazia di Dio. Vivere in
unione con Cristo perché ci si possa unire ancora più profondamente a lui.
Occorre
predisporsi in modo tale che, quando ci si trova alla porta dell’eternità, si
sia monti a consegnarsi a Dio, con il signore Gesù, per ciò che si è.
Semplicemente va dato tutto. Con umiltà, dal momento che non si ha più nulla da
difendere. Con fiducia, dal momento che non si hanno vanti da presentare e urge
un’acuta insopprimibile esigenza, dal momento che non si sfugge alla legge, ma
la legge va interiorizzata il più possibile quasi fino a farla coincidere con
una docilità libertà che desidera, invoca, anela.
Se
poi si vuol programmare la prossimità della morte, bisognerà non avanzare
eccessive pretese. Si farà ciò che Dio vorrà nella sua benevolenza.
Uno
può desiderare una morte magari faticosa, ma cosciente, non provvisoria. “Dalla
morte inconsapevole e improvvisa liberaci, o Signore”.
In
casa, e non nell’isolamento di un ospedale. Attorniato da parenti e amici.
Gradirebbe di dire le poche parole che contano e che riassumono un’esistenza.
Gradirebbe di venir ascoltato senza provocare timori o fastidi. Gradirebbe di
esser aiutato a morire non con dotte lezioni, ma con la prossimità di un
affetto che nasce dalla fede. Una morte preparata con una confessione generale,
così che il perdono di Dio scenda su tutto, su tutto. Con l’unzione degli
infermi che lenisca il dolore e sostenga nell’agonia. O almeno dia la forza di
sopportare. Col viatico che è il pane del cammino senza ritorno nel mistero, e
segna la compenetrazione più intima con Cristo. Con il rosario in mano, perché
la Madonna renda meno aspro il passo. Quante volte si è detto: “Prega per noi
peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”. E’ il caso. Con le fotografie
dei suoi morti davanti, così da chiamarli perché ci vengono incontro e ci
accompagnino. Con la consapevolezza di star morendo. Magari con il coraggio di
parlare della propria morte e di ciò che attende dopo, con le persone che
assistono e fanno visita. Magari con sulle labbra e nel cuore l’invocazione a
morire, poiché tutto è pronto e “Vieni, Signore Gesù”. Il resto non conta.
Uno
può desiderare questo e altro. Senza lasciarsi prendere dall’idillio. Ragionar
di morte, magari in momenti felici, è abissalmente lontano dal morire.
Ma,
alla fine, deve accettare la morte che il Signore gli manda, o trepidamente gli
dona. L’importante è che il cuore sia disposto, se non a cantare l’alleluia,
almeno a dire un grazie sommesso, o un amen che è pura rassegnazione.
Non
si fa della poesia zoppicante su eventi ignoti e drammatici. Né ci si
attribuisce senza batter ciglio atteggiamenti e frasi di santi. “Muoio, Dio,
perché non muoio”. “Sorella morte corporale”. Ecc. Si vedrà nei fatti. La
santità non si improvvisa. E ce n’è di quella per nulla pacata. Si rasserenerà,
e forse sta avvertendo per la prima volta la verità della pagina del Getsemani.
Nella lotta finale, vale il “E adesso,
a noi due”.
Si
combatte con Dio tutta la notte, per farsi da lui benedire, al mattino.