mercoledì 28 agosto 2019

L’OSSESSA DI PIACENZA (PRIMA PARTE)


L’OSSESSA DI PIACENZA
Intervista col diavolo
Cronaca di Alberto Vecchi
(PRIMA PARTE)
Una luce blanda e carezzevole entrava per la finestra della sacrestia. I colori già assumevano una tinta leggermente rosata. Era la sera del 20 maggio 1920. Fuori, per tutta la campagna piacentina, nel tripudio del verde, la primavera celebrava il suo trionfo.
Il Convento di S, Maria di Campagna, a Piacenza, è molto noto. La sua Chiesa ha funzioni parrocchiali. Tutta la provincia piacentina conosce l’ardore dei Frati Minori di S. Maria di Campagna.
Quella sera di maggio, un frate stava riordinando la sacrestia e gli arredi sacri, allorché una signora si presentò per chiedere una benedizione. Desiderava che la benedizione le fosse impartita davanti all’altare della Madonna. In questa richiesta non v’era davvero nulla di strano. Vi si palesava soltanto un lodevole spirito di pietà. Ma lo strano venne dopo, quando la signora, ottenuta la benedizione, incominciò a confidare certi suoi casi abbastanza tenebrosi.
Il sacerdote, come confessore, è in genere molto abituato alle confidenze più varie, più singolari; e il Padre Pier Paolo non pensò neppure lontanamente a rifiutare la carità di un poco di attenzione al bisogno che la signora manifestò di confidarsi. Tanto più che la donna aveva un atteggiamento più viva.
Ed essa raccontò, dapprima con fare sommesso ed esitante e poi in modo sempre più risoluto e quasi allucinato, avvenimenti sbalorditi. Diceva che certe ore del giorno una forza misteriosa, superiore alle su forze, si impossessava del suo corpo, della sua anima, e che essa allora, benché con riluttanza, ballava il tango per ore e ore sino a cadere sfinita. Diceva che con voce splendida cantava stornelli, romanze, brani d’opera, mai da lei prima uditi, che teneva lunghissime fine e della fine di tutte le sue sorelle; che spesso con i denti lacerava tutto ciò che le era possibile lacerare, e che aveva già rovinato tutta la sua biancheria e quasi tutta quella di suo marito; che in casa, come se fosse una biscia, con terrore di tutti i presenti, scivolava entro le spalliere delle sedie, e ruggiva e miagolava e ululava entro le spalliere delle sedie, e ruggiva e miagolava e ululava con un crescendo così spaventoso, che in certe ore tutta la casa sembrava tramutata, per non si sa quale incantesimo, in un serraglio di bestie feroci. Ed essa vedeva cose lontane, sconosciute: come avvenne una sera, quando, prima con meraviglia e poi prorompendo in pianto dirotto esclamò: “Quanti fiori! Quanti lumi! Quanta gente nel cimitero di Carpaneto! Ecco il monatto che cala nella fossa! Povera sposa, così bella e così giovane!”. E si potè constatare che, come in altri casi analoghi, aveva detto il vero.

IN CERCA DI PACE

Narrò che, talvolta, dopo salti e voli degni in tavolo, addirittura di camera in camera, il suo corpo cadeva inerte e per intere giornate rimaneva gonfio e annerito destando pietà e ribrezzo in chi la vedeva. Aggiunse, tra le tante altre cose, che quando essa si trovava in crisi, anche la famiglia dei suoi genitori, benché lontana, per non si sa qual fluido misterioso, si sentiva indisposta.
“Creda, Padre” concluse la signora “che la mia vita è diventata un vero inferno. Benché io sia madre di due bambini, pure penso alla morte come a uno scampo, a una liberazione”.
Il P. Pier Paolo Veronesi era rimasto interdetto davanti a questo racconto. Per verità gli era già accaduto di trovarsi di fronte a donne esaltate, o addirittura maniache. Il suo ufficio di cappellano del manicomio lo aveva già addestrato a qualsiasi sorpresa, Niente di più naturale, quindi, che gli venisse di pensare a un fenomeno di isterismo o di qualcosa del genere.
Chiese: “Sono stati controllati questi casi?”.
“Sì” rispose la signora “da molte persone”.
“E succederebbero da qualche tempo?”.
“Da sette anni”.
“E in sette anni che cosa hanno detto i medici?”.
“Sono andata da tutti i medici di Piacenza, almeno da quelli che già conoscevo, e tutti mi hanno detto, più o meno velatamente, che sono un caso tipico di isterismo”.
Il Padre si sentì rinfrancato nel suo giudizio: “Lei ne è rimasta persuasa?” chiese.
“No, perché sento di non essere una isterica, e neppure una pazza”.
“E allora?”
“Allora” continuò la signora, che frattanto già si era rianimata “non sperando più nulla dagli uomini, ho sentito il bisogno di rivolgermi a Dio, di raccomandarmi a Lui. E sono andata, benché provassi molta ripugnanza, in tutte le Chiese della città per pregare, per farmi benedire; e confesso che (specialmente la benedizione) mi fa star meglio, almeno per alcuni giorni. Ma sono ormai andata tante volte, che quasi non ho più il coraggio di presentarmi: perché temo che i sacerdoti mi ritengano una pazza. E a questo proposito” continuò sempre più animandosi ed esprimendosi con molta eleganza “Ascolti: mi fu detto che sulle colline piacentine c’era un parroco famoso per le sue benedizioni. Smaniosa di farmi benedire da lui, una domenica dopo pranzo (eravamo d’estate) mi feci prestare per il viaggio un calesse. Fu il mio Comune di S. Giorgio a prestarmi cavallo e calesse. In compagnia di mio marito e dei miei genitori, tutta contenta, mi misi in viaggio. Il cavallo, ottimo trattore, per un buon tratto di strada divorò la via; quando, a un certo punto, io incominciai a sentirmi male. Contemporaneamente, anche il cavallo si fermò di botto. Lo frustarono a sangue. La povera bestia, tra calci e impennate, puntò le gambe, allungò il collo, ma non si mosse. Allora, quasi fuori di me, saltai giù dal calesse, mi liberai dalla stretta dei miei, e volando (noti bene la parola: volando) circa un mezzo metro da terra, attraverso i campi, salii la collina in direzione della chiesa presso la quale noi volevamo andare. La gente che in quel momento usciva dalla Benedizione pomeridiana, vedendomi salire a quel modo – urlando, gesticolando, coi veli e i capelli all’aria – cominciò a far rumore. Le donne gridavano, qualche cane abbaiava, le galline volavano spaventate dai campi verso casa. Finalmente arrivai sul piazzale. Tutti mi fecero largo: e io, sempre in volo, con la testa bassa e facevo sterzo della persona, infilai la porta semiaperta della chiesa, e andai a cadere lunga distesa proprio davanti all’altar maggiore su cui era esposto il quadro di S. Espedito. Il parroco, seguito dalla folla, mi benedisse, e io rinvenni, e per diversi giorni stetti benissimo.

LA TERRIBILE REALTA’

Qui la signora si fermò, domandando al Padre che cosa ne pensasse. Questi, sempre convinto di trovarsi di fronte a una povera allucinata, rispose vagamente:”Certamente sono fenomeni strani, molto strani”. E, tanto per concludere, soggiunse: “Senta: se la benedizione le fa bene, venga pure quando crede e senza timore; se non ci sarò io, ci sarà pur sempre qualche mio confratello”.
Alcuni giorni dopo la signora si presentò di nuovo. Mentre il P. Pier Paolo era tutto intento a benedirla davanti all’altare della Madonna, essa, seduta com’era vicino a una colonna del presbiterio (aveva infatti domandato di sedersi), sommessamente, a bocca chiusa, cominciò a ululare con un cane che si lamenti nel sonno; poi reclinata la testa alla colonna, a occhi chiusi, con le mani in grembo, si abbandonò improvvisamente al canto: un canto splendido, passionale, ricchissimo. Dopo aver cantato – e vi erano accorsi, con gli occhi sbarrati, tutti i bambini che stavano giocando sul piazzale e nei dintorni della chiesa – stando sempre nella medesima posizione, in un linguaggio perfettamente sconosciuto, prese a inveire contro qualche cosa di invisibile, con una violenza tale da sembrare una pazza nel colmo del furore.
In quel momento usciva dal coro e si accingeva ad attraversare la chiesa un altro frate minore, il Padre Apollinare Focaccia. Questi ebbe modo di udire il canto e il resto. A sera, questi, conversando col Padre Pier Paolo, chiese: “Ha osservato quella signora?”.
“Sì, perché?”.
“Non è rimasto impressionato?”
“A dirle il vero, no. Come cappellano del manicomio, ormai sono abituato a certe scene”.
E infatti la signora non gli aveva fatto proprio nessunissima impressione: tanto più che inveiva bensì il confratello “che quella signora è indemoniata”.

IL COMANDO DEL VESCOVO

E tanto disse e tanto che il mattino dopo P. Pier Paolo si presentò al Vescovo. Mons. Pellizzari, dopo essersi fatto raccontare il caso in lungo e in largo, e dopo seria riflessione, disse: “Fate gli esorcismi”.
A questo colpo, che arrivò secco, imprevisto, il P. Pier Paolo sussultò come se l’avesse sfiorato un’auto in corsa. E chiese:”Eccellenza, è davvero necessario fare gli esorcismi?”.
“S’” rispose il Vescovo.
“E proprio li dovrei fare io?”.
“Voi”.
“Non potrebbe incaricarne un altro?”.
“O voi o Mons. Mosconi. Ma meglio voi, perché già conoscete la persona”.
“Perdoni, Eccellenza” continuò il Padre. “Se ben ricordo, ho sentito dire che il demonio, negli esorcismi, inveisce contro il sacerdote, inventando sul suo conto storie tutt’altro che piacevoli. E se la signora è veramente indemoniata …”.
“Ma chi crede alle parole del demonio?” interruppe il Vescovo cercando di persuaderlo e di fargli coraggio.
“Non sapete che il demonio è il padre della menzogna?”.
“Tutto questo va bene in teoria” osò insistere il frate “ma, in pratica, coloro che mi dovranno assistere, crederanno poi davvero che il demonio dica semplicemente delle bugie?”.
“Fate gli esorcismi” ripetè il Vescovo, con tono che ormai non ammetteva repliche. E si alzò.
Il Padre uscì dall’episcopio in condizioni di spirito tutt’altro che allegre. “Sarebbe bello” pensava “che mi mettessi a contatto proprio col demonio! E che il demonio facesse una confessione generale dei miei peccati! E che per arrotondare la cifra e da fare maggior sapore alla cosa ne aggiungesse degli altri!”.
E dopo un altro tratto di strada: E se la donna fosse semplicemente un’isterica? Se, dopo averla tormentata con esorcismi, diventasse anche più isterica, più matta di prima? Quali le conseguenze?”.
Già stava per ritornare indietro, per rinunciare al mandato, quando alla sua coscienza con maggior forza. Il momento di umana, naturale debolezza fu subito vinto. E dopo la lotta tra il sì e il no, cedette completamente al comando del Vescovo, mormorando, non senza qualche stizza contro tutte le isteriche del mondo, con le parole di Don Abbondio:”Basta, il cielo è in obbligo di aiutarmi, perché in questo imbroglio non mi ci sono messo io di mio capriccio”.
Andò in cerca del dott. Lupi, il valentissimo e cordiale direttore del manicomio, che tutta Piacenza conosceva e stimava, e ancora ricorda. Lo trovò nel suo studio.
“Dottore” disse entrando “mi capita un bel caso”. E in pochi minuti lo mise al corrente della cosa.
“E’ davvero un bel caso” confermò il dottore. “Potrei venire alle sedute?”.
“Ero venuto apposta per invitarla”.
“Verrò certamente”.
“Ma a una condizione, dottore: che le si tenga le sue opinioni e io le mie. A meno che i fatti non fossero così evidenti da condurci tutti e due alla medesima conclusione”.

Da libro : E’ lui a far paura al demonio
(Continua 2 P.)