L’OSSESSA
DI PIACENZA
Intervista col diavolo
Cronaca di Alberto Vecchi
(PRIMA PARTE)
Una luce blanda e
carezzevole entrava per la finestra della sacrestia. I colori già assumevano
una tinta leggermente rosata. Era la sera del 20 maggio 1920. Fuori, per tutta
la campagna piacentina, nel tripudio del verde, la primavera celebrava il suo
trionfo.
Il Convento di S, Maria di
Campagna, a Piacenza, è molto noto. La sua Chiesa ha funzioni parrocchiali.
Tutta la provincia piacentina conosce l’ardore dei Frati Minori di S. Maria di
Campagna.
Quella sera di maggio, un
frate stava riordinando la sacrestia e gli arredi sacri, allorché una signora
si presentò per chiedere una benedizione. Desiderava che la benedizione le
fosse impartita davanti all’altare della Madonna. In questa richiesta non v’era
davvero nulla di strano. Vi si palesava soltanto un lodevole spirito di pietà.
Ma lo strano venne dopo, quando la signora, ottenuta la benedizione, incominciò
a confidare certi suoi casi abbastanza tenebrosi.
Il sacerdote, come
confessore, è in genere molto abituato alle confidenze più varie, più
singolari; e il Padre Pier Paolo non pensò neppure lontanamente a rifiutare la
carità di un poco di attenzione al bisogno che la signora manifestò di
confidarsi. Tanto più che la donna aveva un atteggiamento più viva.
Ed essa raccontò, dapprima
con fare sommesso ed esitante e poi in modo sempre più risoluto e quasi
allucinato, avvenimenti sbalorditi. Diceva che certe ore del giorno una forza
misteriosa, superiore alle su forze, si impossessava del suo corpo, della sua
anima, e che essa allora, benché con riluttanza, ballava il tango per ore e ore
sino a cadere sfinita. Diceva che con voce splendida cantava stornelli,
romanze, brani d’opera, mai da lei prima uditi, che teneva lunghissime fine e
della fine di tutte le sue sorelle; che spesso con i denti lacerava tutto ciò
che le era possibile lacerare, e che aveva già rovinato tutta la sua biancheria
e quasi tutta quella di suo marito; che in casa, come se fosse una biscia, con
terrore di tutti i presenti, scivolava entro le spalliere delle sedie, e
ruggiva e miagolava e ululava entro le spalliere delle sedie, e ruggiva e
miagolava e ululava con un crescendo così spaventoso, che in certe ore tutta la
casa sembrava tramutata, per non si sa quale incantesimo, in un serraglio di
bestie feroci. Ed essa vedeva cose lontane, sconosciute: come avvenne una sera,
quando, prima con meraviglia e poi prorompendo in pianto dirotto esclamò: “Quanti
fiori! Quanti lumi! Quanta gente nel cimitero di Carpaneto! Ecco il monatto che
cala nella fossa! Povera sposa, così bella e così giovane!”. E si potè
constatare che, come in altri casi analoghi, aveva detto il vero.
IN CERCA DI PACE
Narrò che, talvolta, dopo
salti e voli degni in tavolo, addirittura di camera in camera, il suo corpo
cadeva inerte e per intere giornate rimaneva gonfio e annerito destando pietà e
ribrezzo in chi la vedeva. Aggiunse, tra le tante altre cose, che quando essa
si trovava in crisi, anche la famiglia dei suoi genitori, benché lontana, per
non si sa qual fluido misterioso, si sentiva indisposta.
“Creda, Padre” concluse la
signora “che la mia vita è diventata un vero inferno. Benché io sia madre di
due bambini, pure penso alla morte come a uno scampo, a una liberazione”.
Il P. Pier Paolo Veronesi
era rimasto interdetto davanti a questo racconto. Per verità gli era già
accaduto di trovarsi di fronte a donne esaltate, o addirittura maniache. Il suo
ufficio di cappellano del manicomio lo aveva già addestrato a qualsiasi
sorpresa, Niente di più naturale, quindi, che gli venisse di pensare a un
fenomeno di isterismo o di qualcosa del genere.
Chiese: “Sono stati controllati questi casi?”.
“Sì” rispose la signora “da molte persone”.
“E succederebbero da qualche tempo?”.
“Da sette anni”.
“E in sette anni che cosa hanno detto i medici?”.
“Sono andata da tutti i
medici di Piacenza, almeno da quelli che già conoscevo, e tutti mi hanno detto,
più o meno velatamente, che sono un caso tipico di isterismo”.
Il Padre si sentì
rinfrancato nel suo giudizio: “Lei ne è rimasta persuasa?” chiese.
“No, perché sento di non
essere una isterica, e neppure una pazza”.
“E allora?”
“Allora” continuò la
signora, che frattanto già si era rianimata “non sperando più nulla dagli
uomini, ho sentito il bisogno di rivolgermi a Dio, di raccomandarmi a Lui. E
sono andata, benché provassi molta ripugnanza, in tutte le Chiese della città
per pregare, per farmi benedire; e confesso che (specialmente la benedizione)
mi fa star meglio, almeno per alcuni giorni. Ma sono ormai andata tante volte,
che quasi non ho più il coraggio di presentarmi: perché temo che i sacerdoti mi
ritengano una pazza. E a questo proposito” continuò sempre più animandosi ed
esprimendosi con molta eleganza “Ascolti: mi fu detto che sulle colline
piacentine c’era un parroco famoso per le sue benedizioni. Smaniosa di farmi
benedire da lui, una domenica dopo pranzo (eravamo d’estate) mi feci prestare
per il viaggio un calesse. Fu il mio Comune di S. Giorgio a prestarmi cavallo e
calesse. In compagnia di mio marito e dei miei genitori, tutta contenta, mi
misi in viaggio. Il cavallo, ottimo trattore, per un buon tratto di strada
divorò la via; quando, a un certo punto, io incominciai a sentirmi male.
Contemporaneamente, anche il cavallo si fermò di botto. Lo frustarono a sangue.
La povera bestia, tra calci e impennate, puntò le gambe, allungò il collo, ma
non si mosse. Allora, quasi fuori di me, saltai giù dal calesse, mi liberai
dalla stretta dei miei, e volando (noti bene la parola: volando) circa un mezzo
metro da terra, attraverso i campi, salii la collina in direzione della chiesa
presso la quale noi volevamo andare. La gente che in quel momento usciva dalla
Benedizione pomeridiana, vedendomi salire a quel modo – urlando, gesticolando,
coi veli e i capelli all’aria – cominciò a far rumore. Le donne gridavano,
qualche cane abbaiava, le galline volavano spaventate dai campi verso casa.
Finalmente arrivai sul piazzale. Tutti mi fecero largo: e io, sempre in volo,
con la testa bassa e facevo sterzo della persona, infilai la porta semiaperta
della chiesa, e andai a cadere lunga distesa proprio davanti all’altar maggiore
su cui era esposto il quadro di S. Espedito. Il parroco, seguito dalla folla,
mi benedisse, e io rinvenni, e per diversi giorni stetti benissimo.
LA TERRIBILE REALTA’
Qui la signora si fermò,
domandando al Padre che cosa ne pensasse. Questi, sempre convinto di trovarsi
di fronte a una povera allucinata, rispose vagamente:”Certamente sono fenomeni
strani, molto strani”. E, tanto per concludere, soggiunse: “Senta: se la
benedizione le fa bene, venga pure quando crede e senza timore; se non ci sarò
io, ci sarà pur sempre qualche mio confratello”.
Alcuni giorni dopo la signora
si presentò di nuovo. Mentre il P. Pier Paolo era tutto intento a benedirla
davanti all’altare della Madonna, essa, seduta com’era vicino a una colonna del
presbiterio (aveva infatti domandato di sedersi), sommessamente, a bocca
chiusa, cominciò a ululare con un cane che si lamenti nel sonno; poi reclinata
la testa alla colonna, a occhi chiusi, con le mani in grembo, si abbandonò
improvvisamente al canto: un canto splendido, passionale, ricchissimo. Dopo
aver cantato – e vi erano accorsi, con gli occhi sbarrati, tutti i bambini che
stavano giocando sul piazzale e nei dintorni della chiesa – stando sempre nella
medesima posizione, in un linguaggio perfettamente sconosciuto, prese a inveire
contro qualche cosa di invisibile, con una violenza tale da sembrare una pazza
nel colmo del furore.
In quel momento usciva dal
coro e si accingeva ad attraversare la chiesa un altro frate minore, il Padre
Apollinare Focaccia. Questi ebbe modo di udire il canto e il resto. A sera,
questi, conversando col Padre Pier Paolo, chiese: “Ha osservato quella signora?”.
“Sì, perché?”.
“Non è rimasto impressionato?”
“A dirle il vero, no. Come
cappellano del manicomio, ormai sono abituato a certe scene”.
E infatti la signora non gli
aveva fatto proprio nessunissima impressione: tanto più che inveiva bensì il
confratello “che quella signora è indemoniata”.
IL COMANDO DEL VESCOVO
E tanto disse e tanto che il
mattino dopo P. Pier Paolo si presentò al Vescovo. Mons. Pellizzari, dopo
essersi fatto raccontare il caso in lungo e in largo, e dopo seria riflessione,
disse: “Fate gli esorcismi”.
A questo colpo, che arrivò
secco, imprevisto, il P. Pier Paolo sussultò come se l’avesse sfiorato un’auto
in corsa. E chiese:”Eccellenza, è davvero necessario fare gli esorcismi?”.
“S’” rispose il Vescovo.
“E proprio li dovrei fare io?”.
“Voi”.
“Non potrebbe incaricarne un altro?”.
“O voi o Mons. Mosconi. Ma meglio voi, perché già
conoscete la persona”.
“Perdoni, Eccellenza”
continuò il Padre. “Se ben ricordo, ho sentito dire che il demonio, negli
esorcismi, inveisce contro il sacerdote, inventando sul suo conto storie tutt’altro
che piacevoli. E se la signora è veramente indemoniata …”.
“Ma chi crede alle parole
del demonio?” interruppe il Vescovo cercando di persuaderlo e di fargli
coraggio.
“Non sapete che il demonio è il padre della menzogna?”.
“Tutto questo va bene in
teoria” osò insistere il frate “ma, in pratica, coloro che mi dovranno
assistere, crederanno poi davvero che il demonio dica semplicemente delle
bugie?”.
“Fate gli esorcismi” ripetè
il Vescovo, con tono che ormai non ammetteva repliche. E si alzò.
Il Padre uscì dall’episcopio
in condizioni di spirito tutt’altro che allegre. “Sarebbe bello” pensava “che
mi mettessi a contatto proprio col demonio! E che il demonio facesse una
confessione generale dei miei peccati! E che per arrotondare la cifra e da fare
maggior sapore alla cosa ne aggiungesse degli altri!”.
E dopo un altro tratto di
strada: E se la donna fosse semplicemente un’isterica? Se, dopo averla
tormentata con esorcismi, diventasse anche più isterica, più matta di prima? Quali
le conseguenze?”.
Già stava per ritornare
indietro, per rinunciare al mandato, quando alla sua coscienza con maggior
forza. Il momento di umana, naturale debolezza fu subito vinto. E dopo la lotta
tra il sì e il no, cedette completamente al comando del Vescovo, mormorando,
non senza qualche stizza contro tutte le isteriche del mondo, con le parole di
Don Abbondio:”Basta, il cielo è in obbligo di aiutarmi, perché in questo
imbroglio non mi ci sono messo io di mio capriccio”.
Andò in cerca del dott.
Lupi, il valentissimo e cordiale direttore del manicomio, che tutta Piacenza
conosceva e stimava, e ancora ricorda. Lo trovò nel suo studio.
“Dottore” disse entrando “mi
capita un bel caso”. E in pochi minuti lo mise al corrente della cosa.
“E’ davvero un bel caso”
confermò il dottore. “Potrei venire alle sedute?”.
“Ero venuto apposta per invitarla”.
“Verrò certamente”.
“Ma a una condizione,
dottore: che le si tenga le sue opinioni e io le mie. A meno che i fatti non
fossero così evidenti da condurci tutti e due alla medesima conclusione”.
Da libro : E’ lui a far paura al demonio
(Continua 2 P.)
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