L’OSSESSA
DI PIACENZA
Intervista col diavolo
Cronaca di Alberto Vecchi
(QUINTA PARTE)
IL
CORPUS DOMINI
Durante il quinto esorcismo,
lo spirito si ribellò, come al solito, al sacerdote:”Non esco!”.
“Perché?”.
“Per farti arrabbiare”.
“Ma io sono più potente di te!”.
“E perché sei più potente”
rispose con dolore indicibile lo spirito “Tu mi cacci?”.
“Appunto perché sono il più potente oggi ti voglio
cacciare”.
“Oggi non esco”.
“Il motivo?”.
“Perché oggi hai ottenuto anche troppo”.
“In nome di Dio, in nome di
quell’Ostia Santa che questa mattina è passata alta e solenne in mezzo a noi
(era il giorno del Corpus Domini), che è scesa nell’anima di questa creatura,
esci da questo corpo”.
“Non vado!” gridò lo spirito vibrante di collera.
“Ma Cristo, il nostro Dio,
non deve cedere di fronte a te, spirito immondo: esci da questo corpo!”.
“Non vado!”. Lo spirito
urlava a squarciagola, sempre più inferocito. “Ti potrai dire contento se
riuscirai a farmi uscire il 23”.
“Devi andar via oggi, festa del Corpus domini”.
“Oggi non vado”. E d’un
colpo si avventò contro il sacerdote e gli strappò la stola, che dilaniò
ferocemente, voluttuosamente, come era solito fare. Da notarsi però che,
nonostante sempre si udisse chiaramente da tutti il crac della stoffa lacerata
e se vedessero i brandelli stracciati dai denti forti dell’ossessa, la stola,
sottratta alle furie diaboliche, si mostrava sempre intatta, come se nessuno
l’avesse toccata.
“Con qual diritto stai in
questo corpo? Questa creatura fu fatta un giorno da Dio a sua immagine e
somiglianza; per lei Egli si è incarnato, per lei ha patito ed è morto in
croce. Quindi essa è sua”.
L’esorcista si interruppe,
attendendo invano una risposta. Poi riprese: “Questa creatura è vero tempio
dello Spirito Santo, è vera casa di Dio, e nella casa di Dio non deve starci
altri che Dio. Fuori, spirito immondo!”.
Ma alle parole del sacerdote seguiva solo il silenzio.
Lo spirito non rispondeva.
“Si avvicina l’ora della benedizione. Senti: le campane suonano, l’organo
accompagna il canto del Tantum Ergo, il popolo è inginocchiato davanti al
Santissimo esposto. In quest’ora tutte le fronti si chinano e tu pure devi
inchinarti e uscire”.
Anche questa volta nessuna risposta.
Dimmi, dimmi in nome di Dio,
in nome di Gesù Cristo esposto, non ti dà fastidio questo giorno, il giorno del
Corpus Domini?
Finalmente risuonò una risposta, ma era lugubre:”Sì”.
“Ebbene, vattene!”.
“Ero nei deserti lontani, mi
hanno chiamato, mi hanno scongiurato, sono venuto, non posso uscire”.
La sua voce pareva un gemito.
“Ma Iddio, il nostro Dio”
continuò il sacerdote con sempre maggiore slancio “è grande, è onnipotente.
Davanti a questo Dio il Faraone capitola, Paolo cade a terra, e tu pure devi
cedere e darti per vinto”.
Lo spirito gli rivolse
un’occhiata piena di un’angoscia indescrivibile e non rispose.
“Satana!” esclamò il padre,
discernendo nel suono delle campane il momento della benedizione Eucaristica.
“Satana, ecco il momento
solenne in cui Cristo sotto le specie del pane viene innalzato perché voglia
benedire il suo popolo. In questo momento, con tutta l’autorità, con tutto
l’impero che mi viene da Dio, ripeto a te le parole del Salvatore divino: “Exi
a bea!”. Satana, rendi onore a Dio Padre, dà luogo a Gesù Cristo, dà luogo allo
Spirito Santo, che per mezzo dell’apostolo Pietro un giorno ti umiliò in Simon
mago: “Exi a bea!”.
Il comando cadde in un
silenzio tombale, che sinistramente contrastava col gioioso suono delle campane
che, fuori, inondava tutta la campagna. Lo spirito taceva, affranto; ma pareva
incatenato a quel corpo.
Durante l’ottavo esorcismo
c’era stato questo colloquio tra il padre e lo spirito:
“Quando uscirai?”.
“Il 23 giugno 1920?”.
“E perché non prima?”.
“E’ destinato così”.
“Quando mi hanno
scongiurato, hanno fissato che nessuno otterrà la guarigione se non faranno gli
esorcismi prima del 23”.
“Tutte imposture” gridò
indignato l’esorcista. E infatti, che avrebbe dovuto credere alle parole del
padre della menzogna? “Iddio è superiore agli stregoni”.
“Se Dio non fosse superiore
agli stregoni” rispose lo spirito in tono solenne e dilatando gli occhi per il
terrore “io non uscirei mai più”.
LO
STRANO COLLOQUIO
Più gli esorcismi si
avviavano verso la fine, più il tormento dello spirito appariva evidente. Forse
avrebbe desiderato partire, ma era incatenato. Del resto sfogava la sua rabbia,
tormentando a sua volta il povero corpo dell’ossessa, che alle volte era
sfigurato in modo da non essere più riconoscibile agli stessi presenti.
“Quando uscirà la palla?”
chiese P. Pier Paolo all’undicesimo esorcismo, avvenuto il giorno 18 giugno.
“Il 23 giugno”.
“A che ora?”.
“Alle cinque”.
Mi hai detto che uscendo da
questo corpo me ne avresti avvertito chiamando la Gilda per tre volte. E’
vero?”.
“Sì”.
“Ebbene questo nome non lo voglio”.
“Perché?”.
“Perché la Gilda non ha nulla a che fare con te, spirito
immondo”.
“Allora ti darò un altro segno”.
“Che segno?”.
“Te lo dirò più tardi”.
“Dimmelo ora!”.
“Mi parlerai?”.
“Sì”.
“E come parlerai, se dopo
questo esorcismo, non potrai dire nulla?”. Lo spirito infatti aveva da tempo
avvertito che dopo l’undicesimo esorcismo le sue forze si sarebbero talmente
indebolite, da togliergli persino l’uso della voce. “Ho voluto dire che non ti
risponderò più; ma quando partirò, farò come faccio adesso a parlarti”.
A questo punto il sacerdote
rinnovò l’esorcismo, poi intimò: “Alzati e rigetta!”.
Subito l’ossessa fu sul catino.
“Rigetta!
“Non mi resta più nulla da rigettare.
“In nome di Dio, fa
rigettare a questa creatura, senza sforzi inutili, tutto ciò che ha preso per
malefizio”.
Questa volta l’ossessa rigettò una grande quantità di
liquido.
“Che cosa abbiamo ottenuto?” chiese il padre.
“L’ho già detto”.
“Non hai detto niente. Che cosa abbiamo ottenuto?”.
“Te l’ho già detto. Non essere troppo seccante”.
Il padre si ricordò che Isabò
doveva aver perduto, come questi si era espresso, l’ultima sua forza.
“Voglio sapere dove è andata l’ultima tua forza”.
“In N.N.” (quello che aveva
invocato lo spirito ripetutamente, come anche lo stesso padre aveva udito
personalmente).
“E’ la verità?”.
“Sì”.
“Starai a questo comando?”.
“Sì, sì, sì” e un’altra
risata fredda, sarcastica risuonò sinistramente nella sala. Già calava la
notte. L’esorcismo era iniziato sei ore prima. Sei ore di spasimo per il corpo
della povera signora. Il sacerdote pensò dunque di chiudere l’esorcismo.
“A te immondo spirito …”. Lo
spirito prontamente interruppe: “ … comando di non far male, di non far paura
né a te, né ad alcuno dei presenti … Devi dire” soggiunse con forza dopo una
pausa “di non far bene, Perché per me il male è un bene”.
Al successivo appuntamento
del 21 giugno, alle ore 15 come al solito, i convenuti ebbero subito una
sorpresa.
Durante le preghiere
preparatorie, l’ossessa non si stirava, non sbadigliava più quelle occhiate
sinistre, che suscitavano già, specie le prime volte, tanta impressione; ma,
seduta, con le mani strette ai bracciolo della sedia, col mento appoggiato sul
petto se ne stava tetra, imbronciata, quasi fosse l’incarnazione del rimorso.
Alle prime parole
dell’esorcismo si alzò lentamente come per ubbidire a un interiore comando, e,
sempre lentamente, si sdraiò sul materasso disteso ai suoi piedi; ciò fatto, si
irrigidì e rimanendo così immobile, chiuse gli occhi.
I circostanti guardavano con
terrore quel corpo, giacente supino come in una bara, e si attendevano da un
momento all’altro un balzo felino, una di quelle grida improvvise che
agghiacciano il sangue e che solo una
forza non umana è capace di emettere, L’esorcista diede un’occhiata alla croce
posata sul pinnacolo altare, si assicurò che il secchiello dell’acqua santa
fosse al posto, a portata di mano e, finito lo scongiuro, aprì
l’interrogatorio:
“T’impongo di star fermo e
di rispondere solo alle mie domande. Hai capito?”.
Nessuna risposta.
“Non puoi o non vuoi rispondere?”.
Silenzio assoluto.
L’esorcista era un poco imbarazzato. Non sapeva come costringere alla risposta
un muto.
Finalmente ebbe un’idea. “Se
non puoi rispondere” disse “alza un dito, e se non vuoi, alzane due”.
A questa ingiunzione, in un
silenzio assoluto, si vide l’ossessa alzare lentamente, con gran fatica, un
dito. Non poteva rispondere.
E’ chiaro che un colloquio
nel quale uno dei due interlocutori parla per mezzo di segni assai scarni perde
ogni interesse immediato per chi ne legge il resoconto. Ma coloro che videro
coi propri occhi la scena di quel giorno, non dimenticheranno mai l’impressione
provata, osservando l’ossessa, già tanto violenta e ribelle, giacere stanca,
umiliata, sconfitta, col volto atteggiato a un’impressione di abbattimento, di
dolore profondo.
Così si avviò un colloquio
strano, incredibile. Il frate esprimeva delle domande e l’ossessa rispondeva
alzando uno o due dita, a seconda della risposta. Finché le domande cedettero
all’ingiunzione: “Alzati e rigetta!”.
L’ossessa, sempre più tetra e
imbronciata, si alzò lentamente, lentamente andò in cerca del catino, e tentò
di ubbidire. Tutto inutile. Nonostante le reiterate ingiunzioni e i reiterati
tentativi, non riusciva a rigettare. Finalmente il Padre ricorse al trisagio.
Dopo la recita del Sanctus, l’ossessa finalmente ubbidì e rigetto qualcosa.
Poi riprese lo strano
colloquio avviato a base di domande da una parte e di gesti dall’altra. Finché
il Padre si stizzì: “T’impongo di uscire da questo corpo e di andare nel centro
del Sahara o nel (gli indica un altro luogo, che, per motivi ecumenici, ho
preferito non trascrivere n.d.r. oppure
nei cavalli di Piazza Cavalli. Scegli. Dove vuoi andare?”.
L’ingiunzione è
apparentemente strana. Imporre a uno spirito delle destinazioni così precise, manco
fosse un pacco da spedire! Eppure su questo punto non c’è possibilità di
dubbio: troppe sono le fonti che parlano di questi demoni “dell’aria”. Isabò
stesso l’aveva detto più volte: “Vengo dai deserti lontani”.
Alla domanda del sacerdote,
lo spirito parve scuotersi lentamente dal suo letargo; poi con voce stanca,
lamentevole, mormorò come in sogno: “Nel deserto”.
“Nel deserto, nel centro del
Sahara caccio anche i tuoi compagni. Hai capito?”.
Sempre con la stessa voce
stanca e lamentevole, lo spirito risponde: “Vado io solo”.
Dunque parli quando vuoi.
Ma lo spirito non parlò più.
Rispose faticosamente a qualche domanda, alzando le braccia o le dita, finché,
assicurato l’esorcista che non avrebbe fatto male a nessuno, la mano ricadde
pesantemente lungo il corpo e non si mosse più. Quella volta l’esorcismo era
durato meno di due ore.
LA
LIBERAZIONE
Finalmente venne il gran
giorno, il 23 giugno. Se lo spirito aveva detto la verità, sarebbe partito
durante l’esorcismo di quel giorno. Il dott. Lupi, che ancora si sforzava di
osservare i casi con la distaccata attenzione dello scienziato, era agitato
dalla più viva curiosità. La signora e i familiari avevano trascorso un giorno
e mezzo in attesa quasi frenetica.
All’appuntamento furono
puntuali. Il dott. Lupi, nervoso più del solito, batteva con frequenza per
terra il suo bastoncino. Tutti insieme pregarono con molto fervore in Chiesa e
poi passarono alla sala degli esorcismi.
Come l’ultima volta, alle
preghiere preparatorie l’ossessa non si mosse, non si scosse, ma pallida,
disfatta, stava a capo chino sulla sua poltrona esattamente come un condannato
starebbe sulla sedia elettrica. Alle prime parole dell’esorcismo si alzò con
fatica, con fatica si distese sul materasso, e a occhi chiusi vi si irrigidì. Tutto
come l’ultima volta. Il dott. Lupi osservava con gli occhi quasi fuori dalla
testa, per lo sforzo di attenzione.
E iniziò l’ultimo drammatico
colloquio, intervallato da misteriosi momenti di silenzio, che scarni movimenti
delle braccia a malapena coprivano.
“In nome di Dio”. Cominciò l’esorcista
“t’impongo di ubbidirmi in tutto ciò che ti comando. Hai capito?”.
Silenzio.
“Te lo impongo in nome di
Dio, della Madonna. Ancora silenzio. “Se hai capito alza un braccio, altrimenti
due”.
Lentamente con grande
fatica, l’ossessa alzò un braccio. Lo spirito aveva capito.
E così fu ripetuta la
promessa che in quel giorno sarebbe partito. Ma c’era, nei movimenti dell’ossessa,
qualche momento di esitazione.
Seppero che, nel giorno
trascorso, la Gilda era stata tormentata, ma che attualmente era libera.
Seppero anche che gli altri familiari potevano ormai ritenersi liberi da ogni incubo.
“Ma i tuoi compagni verranno con te?” domandò l’esorcista.
Lo spirito non rispose.
“Se verranno, alza un braccio; se non verranno, alzali
ambedue”.
L’ossessa alzò due braccia. Isabò solo partiva.
“Guarda che te li mando
dietro tutti. Hai capito? Se verranno, alza un braccio, se no due”.
L’ossessa alzò le due
braccia e le tenne alzate a lungo, con ostentazione. E anzi, a una nuova
interrogazione del sacerdote, lentamente le mosse, sempre con ostentazione, in
segno di diniego.
“L’ultima tua forza, quella
che ti permetteva di fare qualsiasi male, è entrata veramente in N. N.?”.
V’era entrata. Isabò pareva
sottolineare l’indipendenza dei suoi compagni – o, com’egli chiamava, le sue
forze – rispetto alla nuova sua posizione di cattività. La forza che s’era
impossessata di N. N. non ne sarebbe uscita, e nulla lasciava presumere che ne
sarebbe uscita presto. I suoi compagni lo avrebbero degnamente sostituito nella
seminagione del male.
Sdegnato, il Padre comandò: “Alzati e rigetta!”.
L’ossessa, quasi
trascinandosi, si alzò e, a capo chino, con gli occhi a terra, andò a
inginocchiarsi presso al catino. Si chinò e prese sforzarsi in terribili conati
che le sconquassavano il corpo. Il sacerdote ingiungeva, ed essa sempre più si
sforzava di ubbidire. Era una scena penosa. La povera signora aveva un aspetto
cadaverico. Era disfatta.
“Rigetta!”.
L’ossessa, in uno spasimo
estremo, si sforzò. Era inginocchiata, e teneva i gomiti appoggiati a due sedie
poste ai lati. Ma da quella gola martoriata non uscì ancor nulla.
“Recitiamo il Sanctus” disse il Padre.
Allora soltanto l’ossessa
riuscì a rigettare qualcosa, ma era poco. E la testa le si abbassava sempre
più, quasi la vita ormai stesse per abbandonarla. Le sorressero la testa,
perché non cadesse in avanti. “Sono le quattro e trentacinque minuti” disse con
voce malferma. “Con tutta l’autorità che mi viene da Dio, io ti comando,
spirito immondo, di uscire immediatamente da questo corpo. Se esci subito, ti
confino nel deserto, nel centro del Sahara; se non esci subito, ti mando all’inferno”.
Queste parole riempirono la
sala di un’atmosfera di solennità. Ma confinava col senso di epilogo di
tragedia. I frati, il dottore, gli assistenti, le signorine erano pallidissimi.
Si sarebbe udito il battito dei cuori. Neppure il fiato di respiro interrompeva
la solennità del momento. Gli occhi di tutti erano fissi sull’ossessa, la
quale, all’imposizione del sacerdote, mosse lentamente all’indietro il cuoio
capelluto, e parve che un immenso parruccone da istrione le scivolasse via. Una
grossa parrucca di lana caprina, che fece apparire ridicolo il volto ed
enormemente dilatati gli occhi. Fissò gli occhi lacrimosi in faccia all’esorcista,
che le stava seduto di fronte. Un atteggiamento da ebete. I muscoli del volto
erano tutti rilassati, e il labro inferiore penzolava in giù. Nulla di umano
era rimasto in lei. Questi occhi sbarrati e lucidi, quella bocca aperta, quel
pallore cadaverico, quel parruccone malamente appoggiato sulla nuca: i presenti
non poterono trattenere le lacrime.
Ma poi si udì una voce accorata, lamentevole: “Vaaado!”.
La testa dell’ossessa si
abbatté di schianto sul catino, ed essa rigettò una gran quantità di roba.
“Và, và!” urlò il sacerdote improvvisamente pazzo di
gioia.
Nel tempo stesso l’ossessa
non sentì più il peso terribile della stola, né l’imposizione della mano. Con
voce fresca, di donna giovane, esclamò: “Sono guarita!” e si guardò come
esterrefatta d’intorno con gli occhi sbarrati, con lo sguardo che girava senza
posa sul volto degli amici; ,a la sua bocca era atteggiata al sorriso. Il
sorriso della liberazione.
“E la palla di cui diceva Isabò?” chiese P. Pier Paolo.
“La palla sarà nel catino”
rispose il dottore, che si alzò in fretta, corse al catino e ficcò la canna
nella roba rigettata. Meraviglia! La roba rigettata poté essere tutta sollevata
dal bastone del dottore come fosse panno. E infatti si spiegò agli occhi degli
stupefatti astanti come un velo bellissimo e amplissimo, tutto screziato dei
colori dell’iride.
In fondo al catino,
completamente all’asciutto, apparve la palla famosa tante volte descritta dallo
spirito. Era una palla di salame, della grossezza di una piccola noce, con
sette cornetti. Lo spirito aveva mantenuto la promessa.
La signora, in preda a una
commozione senza limiti, piangeva. Ma era un pianto che, finalmente, le faceva
bene. Anche le signorine avevano il fazzoletto agli occhi.
Il dottore, chino a indagare
dentro il catino, e i frati, che con le mani giunte guardavano ora la signora e
ora il Crocifisso, non sapevano che cosa dire. Ma ormai pregava per tutti la
signora che, corsa a inginocchiarsi davanti all’altare, offriva all’altissimo i
suoi convulsi singhiozzi.
Dal libro: E’ lui a far
paura al demonio – (FINE)