mercoledì 19 dicembre 2018

I NOVISSIMI - CAPITOLO V - IL PARADISO


I NOVISSIMI
IL PARADISO
Capitolo v
1.   Ancora: dov'è il paradiso? Ci sono dei beati? Chi sono?
Di nuovo: domande un pò spontanee e un pò impertinenti.
Per il luogo, dobbiamo dire qui, a maggior ragione, che il paradiso  non è da collocare chissà dove, in “cielo” magari; ma è una condizione di vita che attraversa e si compone o la nostra, pur tanto diversa. A maggior ragione, perché, se l’inferno poteva presentare qualche difficoltà a causa del male che c'è nella dannazione e soprattutto, poi, a motivo dei corpi risorti, per il paradiso abbiamo persone giunte alla loro pienezza in Cristo, e almeno due “risorti”: Il Signore Gesù stesso la Madonna Assunta in anima e corpo.
E’ la pace dei morti che ci avvolge e  che ci rende prossimi ai Santi.
Per quanto concerne, poi, il problema se ci sono e chi ti sono i beati in paradiso, la risposta non può essere che vi meno contorta di quella data per i dannati all'inferno, anche se non del tutto completata.  A questo punto, però, ha ancor senso parlare di inferno e paradiso, o non sarebbe meglio parlare di dannati e di santi? In chiave più personalistica? .
La fede della Chiesa ci assicura che i beati non sono affatto ipotizzabili come non esistenti. Ci sono. E ne conosciamo molti. C’è Cristo. C’è sua madre. Ma, accanto a loro, ci sono i santi che la Chiesa ha canonizzato e beatificato. Una schiera che include Apostoli, Martiri, Vergini, Confessori. Da inzeppare i giorni del calendario, le formule delle litanie e le pagine del Martiriologio. Ma, poi, ci sono tutti gli altri che sono passati attraverso la fama del Popolo di Dio o i processi canonici della Curia Romana. 
Nomi che non sono pronunciati singolarmente nella Liturgia, ma che entrano del “Santi e Sante tutti del Signore”, come in un luogo sterminato “ecc..” che la Chiesa ci fa dire, con spiegata esultanza, per indicare, coloro che nessuno può numerare.
E tra loro speriamo - O talvolta siam certi, nell’intimo - di trovare persone comunissime le quali hanno svolto un'esistenza incomprensibile senza che fosse affidata al Signore. Madri di famiglia. Operai. Professori universitari. Netturbini. Ragazzi dolci e fieri. Ragazze pulite. Monache. Magistrati. E così via. Anche persone che ci sono state vicine ci hanno fatto intuire, della loro coerenza nella loro umiltà; qualche raggio della luce di Dio. Ad ogni buon conto, la Chiesa, per non dimenticarle, queste persone, e al tempo stesso per non identificarle singolarmente, ci fa celebrare la festa di tutti i Santi.

2.   Che cos’è il paradiso?
Ancor più prossimo alla nostra esperienza sarebbe chiederci in che cosa consista la beatitudine.
Ebbene, anche qui occorrerebbe portare al suo pieno sviluppo la vita di grazia per intravvedere qualcosa. E poi rilevare i tratti che la fede cin indica direttamente.
La comunione col Padre, attraverso Cristo, nello Spirito. Una comunione che non si limita al fatto che lo Spirito ci abita, ci conforma al Signore Gesù e ci porta, a lode di gloria, nel seno del Padre. Una comunione che avverte – conosce e percepisce – in modo immediato e totale – quanto è consentito ad esseri finiti – la realtà in cui siamo immersi.
Vedremo Dio come egli è, nella sua vita intima e segreta, e senza mediazioni. Conosceremo Dio come da lui siamo conosciuti. Brividi di gaudio, a ben riflettere.
Saremo totalmente compenetrati in Dio, così da esserne distinti soltanto quanto basta per amarci.
E ciò segnerà il compimento della nostra aspirazione più profonda. Il compimento che supererà l’attesa. Il compimento previsto e sorprendente. E sarà l’esplodere irrefrenato e dolce di una gioia di vivere che aspettava la propria evidenza.
E saremo davvero noi, col nostro unico nome: riconciliati perfettamente con noi stessi, perché perdutamente amati da Dio. Aggiungiamo qui che, almeno dopo la resurrezione, non sarà soltanto l’anima a godere, ma l’intero io umano, con il corpo, la componente emotiva, ecc.
Fin da subito, però, la beatitudine non sarà un gioire solitario. Sarà uno stupito, attonito, grato ritrovarsi tra persone che si sono conosciute e amate lungo l’esistenza terrena. Un morente, o anche uno che guarda alla morte da lontano – ma chissà -, non ha la possibilità di fissarsi una lista di coloro che vorrà incontrare di là, appena Dio lo accoglie? E sarà un lungo interminabile abbraccio: un affetto non più soffocato o nascosto in pieghe d’anima non capite. La comunione dei santi. Che non è soltanto questa compagnia. Ma è anche, questa compagnia.
E ancora: sarà il contemplare le opere di Dio ed esultarne senza limiti e senza termine. Le opere Dio: anche quelle compiute dall’uomo: poesia, musica, immagine, oltre i paesaggi indescrivibili del Regno.
La rivelazione non si attarda molto a esprimere in positivo ciò che proveremo quando sarà asciugata ogni lacrima e Dio sarà tutto in tutti. Ricorre a simboli più che a idee. Parla della vita, della luce, della pace, del banchetto, delle nozze, ecc.
Soprattutto ricorre a frasi negative per alludere a ciò che non si può definire; per renderei accorti che sarà di più e diverso rispetto a ciò che comprendiamo e aspettiamo. Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di un uomo, queste Dio ha preparato per coloro che lo amano.
E per sempre. Non come un tempo annoiato che passa lento. Ma come uno di quegli istanti di stupore in cui tutto l’essere si erge e vorrebbe che il tempo si fermasse.

3.   Che cosa fanno i Santi per noi?
Il rischio non è soltanto di rimanere sempre al di sotto del segno nel parlare della beatitudine. E’ anche quello di abozzare una situazione astratta, statica.
Mentre si ha a che fare con persone che vivono.
Diciamo che già con Col loro essere, I santi ci aiutano, poi che ci sono modelli. Nel cuore che si è convertito. Ma anche nel modo di attuare la conversione. Uomini. Donne. Casalinghe. Vescovi. Emotivi. Razionali. Capace di studio. Capace di comando. Capace di impedenza. È la sottolineature sono ide in definite. Ti evidenzia l'amore ai poveri. Che evidenzia la passione per la verità. Esprime particolarmente la dolcezza l'ordine interiore o il dominio delle passione la cura per la chiesa è o l'entusiasmo missionario o la fortezza fino al martirio, ecc. Una Stella differisce da un'altra nel brillio della sua luce. E nessuna esaurisce il folgore di Cristo e la scapigliata fantasia dello spirito. Ci sono modelli. Intercedono per noi, anche, i Santi. Qui troviamo una nota, spesso lasciata in Calcola dello stile di Dio. Dio non crea soltanto essere capaci di eseguire. Crea pure essere capaci di cooperare. E il caso - inarrivabile - di Maria che ci esiste quella sue mediazione materna. Ma è anche il caso - più modesto, e pure prezioso - dei santi che prega per noi. Ascoltano quando li invochiamo. Ci seguono con attenzione tenerezza. E intercedono a nostro favore. Quasi ci si mettono accanto per accompagnarci nel nostro cammino spesso aspro. Non ci sarebbe da aggiungere che i Santi ci aiutano anche perché tengono desta in noi la speranza di giungere alla beatitudine?

4.   Come si diventa Santi?

La domanda richiederebbe un tratto di morale e, forse, anche uno di ascetica e mistica.
Basti dire che santi, prima di essere santi, non lo erano. Lapalisse, ma fino a un certo punto. Significa che no non sono piombate dal cielo già confezionati, ma si son fatti su questa nostra povera Terra!

Il vivere in grazia. Che già esprime tutto. E seguire il dinamismo della grazia: dello Spirito che ci istruisce e ci guida dal di dentro al Signore Gesù.

Il morire a noi stessi, al peccato, per essere e divenire sempre più creature nuove. Il camminare magari arrancando, ma sapendo che si ha una mèta precisa. Non pretendere che Dio ci mostri il tracciato della nostra chiamata fino in fondo, ma il proprio passo dopo passo, con la certezza che Dio non ci lascia soli.

L'abbandonarsi alla Provvidenza che non ci risparmia né sofferenze né ombre, ma pure ci assicura della solida tenerezza di Dio. Il sapere che altri, prima di noi, hanno sofferto e ora sono a casa. Se questi e queste, perché non io? Senza caricaturare la vita cristiana, rendendola preoccupata soltanto dell'aldilà, oltre la valle di lacrime.
Poiché l'amore si manifesta nella contemplazione, anche nei servizio agli altri, all'impegno per un mondo più libero e giusto. Ecc.
Ciascuno secondo i suoi doni e la sua chiamata.

5.   Vi sono anticipazioni della beatitudine?

In certo senso, sì. Esperienze che ci fanno intravvedere che cosa sarà la conclusione della vita in Dio. E che ci stimolano a non afflosciarci sulle nostre mestizie, sulle nostre fragilità, sui nostri peccati.
L’impazienza e la pace che si avverte nello stare con il Signore. Vedremo. Ameremo. Godremo. La freschezza di un’amicizia che ci apre qualche spiraglio su ciò che sarà la Comunione dei santi. La gioia della contemplazione della natura, della lettura di un testo, dell’ascolto di un brano di musica. E così via.
Anticipazioni. Poiché, se vale una cesura tra la vita terrena e la vita beata, vale anche una qualche continuità. Anticipazioni in un certo senso, si diceva. Le quali, tuttavia, non hanno l’ambiguità di quelle della dannazione. Certo. Uno può anche arrestarsi sulla via della santità. Può tornare indietro, voler cambiare direzione. Ma, se si persiste nella sequela del signore, la gioia va crescendo, pur nel pianto. E il passo si fa più sicuro e lesto. Il Signore attende. Tra noi, ma per disgelarci. Come in un gioco a nascondino. E i Santi trepidano. Venite.

I NOVISSIMI - CAPITOLO IV - L'INFERNO


I NOVISSIMI

L’INFERNO

Capitolo IV

1. Dove l'inferno? Ci sono tanti dannati?

Ecco alcune domande che possono essere tra le più spontanee, ma che rischiano di spingere quanto meno all'equivoco nell'interpretazione di un dato rivelato tra i più conturbanti.
La curiosità circa il “luogo” dell'inferno può essere soddisfatta con una riflessione teologica. Se ci sì rende conto del fatto che l'aldilà non riserva sorprese soltanto circa il tempo, come abbiamo notato, ma, forse, anche circa lo spazio. Si tratta di uno spazio simile al nostro, o addirittura continuo al nostro?
Dove immaginarlo? Ma poi, o ancor prima, ha senso uno spazio di dannazione per anime o persone che sono entrate in una fase di esistenza che non è più terrestre e in un divenire come il nostro eppure diverso dal nostro? Non si tratta di riaggiustare la concezione dell'universo, geocentrica, eliocentrica o altro. Si tratta, molto più radicalmente, di intuire che si è ad un piano diverso di realtà e, dunque, di comprensione. Si dica, allora, che inferno è uno stato di vita, frenando un poco la fantasia. O usandola, ma con la costante consapevolezza che le immagini sono materiale da interpretare. Per quanto concerne, invece l’eventuale “popolazione” dell’inferno – “quanti”  è “chi”-, siamo di fronte a interrogativi a cui Cristo stesso si è sempre rifiutato di rispondere.
Si possono analizzare tutti i testi del Signore Gesù o della Chiesa primitiva o del Magistero susseguente: nessuno di essi permette di affermare con sicurezza che – a parte gli angeli decaduti – vi siano uomini dannati. Ancor meno si riesce a stabilirne il numero e l’identità. Nemmeno per Giuda. “Ma secondo testimonianze di esorcisti Giuda si è dannato”.
Allora porta larga attraverso la quale molti sono coloro che entrano nel fallimento finale dell’esistenza, si può opporre la preghiera di Cristo che è venuto a redimere tutti, o la volontà di Dio che vuole tutti salvi e che nessuno perisca.
Pro e contro. Non si è alle prese con un rompicapo. Si è di fronte ad una precisa volontà del Signore Gesù, il quale non intende dare una sorta di “réportage” in anticipo su ciò che sarà oltre la morte e oltre la conclusione dell’universo.
Intende, invece, responsabilizzare sempre la persona. Vigilate. Pregate. Fate penitenza. Ecc. Se no, la possibilità è il destino di disperazione senza fine. Il discorso di fede, comunque, non va mai incontro a prurigini per sapere gli esiti della libertà umana che si misura con Dio; interpella, invece, la libertà umana perché si converta e accolga la dilezione e la misericordia di Dio.
Non si discuta dei “novissimi” come di “cose” che avvengono. Ci si mette in questione davanti ai “novissimi” che aprono opposte possibilità alla libertà. La storia dei risultati la si vedrà poi, a conclusione avvenuta.

2. In che cosa consiste l’inferno?

Forse, sarebbe più agevole dare prima gli insegnamenti rivelati circa il paradiso, e poi ribaltare l’esposizione per intravedere la realtà dell’inferno.
Qui si è preferito seguire lo schema catechistico tradizionale negli ultimi secoli. Del resto, anche gli accenni che si faranno alla beatitudine presuppongono un poco tutta l'esposizione del dato rivelato circa Dio, la creazione, l'uomo, il peccato d'origine, Gesù Cristo, la chiamata dell'umanità alla salvezza, la Chiesa, ecc. Tutto il “Credo”, insomma, con qualche puntata della morale.
Un metodo per giungere a dire qualcosa di sensato - di rispondente alla rivelazione - può essere quello di analizzare la situazione del peccatore, portandola alle sue estreme conseguenze. Poi si consiglieranno meglio gli spunti per una qualche comprensione dell'inferno. Dell'inferno, o, forse meglio, della dannazione, o del dannato, poiché si tratta di soggetti umani che sono in gioco. Si parla di noi, almeno come rischio o possibilità.
Come è noto, si dà peccato grave o mortale: si dà - quella scelta, cioè, che la persona - e la persona credente in particolare - compie contro Dio, rifiutando il suo amore per ribellione - o per noncuranza. Anche la noncuranza può essere disprezzo sottile: almeno perché l'uomo ha in sé il bisogno insopprimibile di Dio per capirsi e attuarsi nel mistero del perdono e della grazia.
Ora, nel peccato veramente grave o mortale, l'uomo non si limita a compiere dei gesti oggettivamente contrari alla legge morale - naturale ed evangelica - ;impegna tutta la sua libertà, decidendo pienamente e definitivamente In opposizione a Dio che si manifesta in Cristo. Pienamente. Ciò significa che, per quanto sta il lui, l'uomo impegna tutte le proprie forze. Definitivamente. Ciò significa che, per quanto sta il lui, l'uomo determina il proprio destino per sempre. Il fatto, poi, che egli possa ripetere la scelta compiuta, dipende dalla sua condizione terrena ancor fluida, non cristallizzata, se si può dire.
Col passaggio della morte, come si è rivelato, la capacità di decisione si fissa irreversibilmente sul valore, o non - valore, su cui si è puntato la vita.
Il peccatore, di là dal tempo della salvezza, si scopre , così , come un io ha voluto erigersi ad assoluto , del vero è del falso, del bene e del male, costruendosi da sé il proprio progetto di vita e il proprio destino. l'autonomia assoluta è la caratteristica del peccato.
Il Dio condiscendente che si para davanti al dannato: il Dio che ha mandato il suo figlio unigenito a farsi uomo e a morire e risorgere per noi; il Dio che in Cristo ha effuso lo Spirito di grazia e di consolazione nella Chiesa nel mondo: questo Dio viene rifiutato totalmente ed eternamente.
La scelta contro Dio potrebbe apparire come un fatto estraneo o, quantomeno, periferico all'uomo, se non si ponesse mente alla necessità, all'esigenza che l'uomo porta in sé di attuarsi pienamente nel Dio di Gesù Cristo. Il mistero dell'uomo trova spiegazioni e attuazione soltanto nel più grande mistero di Cristo.
Ciò non solo a causa del peccato di origine e delle colpe susseguenti che l'uomo ha bisogno di farsi perdonare. Ma anche perché l'uomo storico non raggiunge la propria perfezione, se non la riceve dall'esterno, da altro da sé: dal Dio Redentore che chiama l'uomo a partecipare alla sua vita di grazia.
Paradosso dell'uomo, che non può rimanere soltanto uomo: deve scegliere tra essere “divinizzato” o “incompiuto”: colpevolmente incompiuto. E dissociato. Dissociato, perché egli non ha il potere di annullare la tendenza, l'aspirazione, l'esigenza - ridiciamo la parola - di comunione e di vita con Dio. E, d'altra parte, non si accetta il punto da compiere liberamente questa esigenza nella comunione con Dio.
Si opera in tal modo una sorta di schizofrenizzazione esistenziale, prima che psicologica, del dannato. Una schizofrenizzazione che è orientamento voluto all'assurdo. Ha bisogno di riamare Dio. In questa risposta troverebbe la felicità. Non la vuole, questa felicità. Ma, al tempo stesso, non gli è dato di sradicare dal cuore il bisogno di Dio. La contraddizione è evidente. Il tragico è che la contraddizione è deliberata.
La sofferenza che ne deriva può essere solo intravveduta a partire dall'esperienza del rimorso a cui non si vuol dare ascolto e che permane.
Se, poi, è vero - com'è vero - che l'uomo è un essere sociale, chiamato non solo alla solidarietà dell'identica stirpe, ma alla comunione fraterna che ha per nodo segreto lo Spirito che conforma a Cristo e che di molti fa "uno" in Cristo, allora risulta chiaro che il peccato è solitudine e la dannazione è solitudine portata all'acme. Solitudine che si traduce in odio lucidissimo, fermissimo e irrevocabile.
V'è un altro aspetto da mettere in evidenza. L'uomo, in "Adamo" e sovrabbondantemente in Cristo, è vocato ad un rapporto col cosmo, che è insieme di contemplazione e di misurato e gioioso dominio. Ciò dovrebbe avvenire pienamente oltre il tempo.
Questo rapporto armonico con le cose create viene rotto mediante il peccato che è disgregazione. Diventa sopruso - sopruso voluto - della natura sul dannato. Ciò che doveva essere motivo di letizia, diviene motivo di sofferenza recata al sommo. Monti, cadete su di noi e seppelliteci. Ma anche il seppellimento non è annichilazione.
La violazione di queste componenti essenziali dell'uomo - la componente religiosa, di accoglienza di sé, di amore fraterno e di contemplazione e dominio del cosmo - : tale violazione non è stato episodico o passeggero nel dannato: è condizione eterna, non mutabile, non correggibile. Per il semplice fatto che il dannato si è liberamente posto in una situazione definitiva. E’ la disperazione senza scampo.
In termini tecnici, la teologia dei vecchi manuali si esprimeva fermando che c'è la “pena del danno”, derivata dalla contrapposizione a Dio, e la “pena del senso”, derivata dal contrasto con le realtà materiali. E richiamava il “fuoco” in chiave simbolica giustamente. C'è da stupirsi che, di solito, non prendesse in considerazione anche quella che si potrebbe chiamare la “pena della solitudine”. Ma l'omissione è da imputare, forse, ad una certa concezione individualistica dell'aldilà come dell'aldiquà, si parla di queste cose con spavento. E una certa chiarezza e un certo sforzo di riflettere sull’esperienza del peccato non fanno che accrescere lo smarrimento, il panico.

3. Perché l'inferno?
Qualche spunto di risposta è già stato offerto al interrogativo. Ma c'è da pensare che l’interrogativo stesso si riferisca al nocciolo della questione. Vale a dire: come è ipotizzabile che Dio possa permettere peccati che sono causa dell'infelicità radicale dell'uomo? Che Dio possa castigare persone che ha creato per la felicità? Che Dio possa essere beato a ricevere gloria dalla dannazione di coloro che erano chiamati a essere suoi figli in Cristo? Non si rende vana la redenzione per cui il Signore Gesù è morto? E come riescono i beati a godere della disperazione di persone che magari sono state loro care? il caso di una mamma che vede il figlio dannato. Ecc.
Forse è bene mettere ordine in domande che si arruffano anche perché nascono dall'inquietudine.
Il “perché” dell'inferno non va, probabilmente, identificato nel Dio che condanna e punisce.
Qui occorre precisare che Dio non è essere volubile, capriccioso, che, a volta a volta, si mostrerebbe vendicativo fino al sadismo, ho bonaccione fino alla mancanza di serietà. Dio non è neppure un essere eccentrico è un po' avaro che dalla “massa dannata” che sarebbe l'umanità, sceglierebbe chi vuole - pochi? - per la beatitudine, abbandonando gli altri al loro destino, magari per la solo colpa d’origine contratta motivo dell'unico fatto di esser venuti al mondo.
No. Dio è giusto. Purché si intende la sua giustizia non nel senso di una parità con noi: una parità per la quale si possa dare a ciascuno - anche a Dio – “ciò che è dovuto”, sentendosi poi a posto con la coscienza.
La giustizia di Dio è quella di un essere trascendente assoluto, creatore e Signore dell'universo della storia.
Ma veniamo al punto: la sua giustizia quella di un Dio che, rimanendo trascendente, assoluto, ecc., crea per amore volendo tutti e tutto riassumere in Cristo, anche dopo il peccato. Non è detto impunemente: Dio vuole che il peccatore si converta e viva; Cristo ha dato la vita per voi e per tutti, ed è venuto tra noi per salvare ciò che era perduto.
Se si vuole: la giustizia di Dio è come inclusa è superata dall'amore e dalla misericordia. Ciò, d'altra parte, non deve indurre ad immaginare una più attenuata esigenza nel rispondergli, quand'anche non a immaginare una sorta di lecita svagatezza nei suoi riguardi, poiché, tanto, egli dilige e perdona: passa sopra un poco a tutto.
Un simile modo di ragionare - di sragionare - non è rispettoso nei di Dio, né dell'uomo.
Non di Dio, poiché non si può prendere a gabbo una benevolenza che, in Cristo, è finita sulla croce per salvarci nella morte e resurrezione. Contro ogni impressione superficiale, l'amore impegna maggiormente che non la pura giustizia. Impegna maggiormente perché, mentre, misurandosi sulla giustizia, ci si può - illusoriamente - sentire alla pari con Dio, non più suoi debitori, non più bisognosi del suo perdono e del suo aiuto; nel caso dell'amore, è di un amore di Dio condotto sino alla fine, non si non si riuscirà mai a sentirsi tranquilli, a togliersi di dosso l'assillo che non si è ancora fatto tutto per riamare a misura. Si impone una responsabilità costante è crescente. Si impone l'umiltà di chi chiede misericordia.
Né l'amore, e singolarmente quello di Dio, è un sentimento vago a cui si può esser fedeli con tutto e il contrario di tutto. A ben riflettere, l'amore non è soltanto esigente fino allo spasimo, ma è preciso fino alla minuzia. Ama e fa ciò che vuoi, ma quando l'amore ha assunto e interiorizzato la legge fino alla spontaneità. Un ideale, questo, da non attribuirsi troppo frettolosamente.
Detto ciò, si può almeno intravedere che l'inferno non è opera di una fantomatica ira o vendetta di Dio. Per quanto strana la cosa possa sembrare, l'inferno è fatto dall'amore. “Fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore”, è scritto sulla porta dell'Inferno dantesco. Con l'acutezza che deriva dalla fede.
Solo occorre aggiungere che l'inferno è fatto di un amore rifiutato. Il dannato, perciò, non è cacciato, separato, rinchiuso dell'inferno, oggetto di tormenti inflittigli chissà da chi. Il dannato si è autoescluso dal trepido amore di Dio che lo ha incalzato lungo la vita terrena e che persiste anche dopo.
Ha consumato la colpa irremissibile in questo secolo e nel futuro: irremissibile non Perché Dio non possa o non voglia perdonarlo, ma perché il peccatore ostinato si è chiuso in sé stesso, non si è lasciato amare e perdonare.

La riflessione, perciò, deve portarsi sulla libertà umana capace di irridere un amore che muore sulla Croce, capace di non avere misericordia di una misericordia - quella di Dio - che non si ritrae davanti ad alcuna nefandezza. Gli altri interrogativi possono presentare delle difficoltà. Non conducono necessariamente ad assurdi. Dio che goda e abbia gloria dai dannati. Ma è la libertà umana il valore sommo che Dio vuole onorare. La mamma che vede il figlio, ecc. Anche qui, nessuno può sostituire la libertà di un altro. Ed è prendere con serietà l'altro, il rispettarlo nelle sue decisioni. Ma chissà.
Dio non vuole degli schiavi davanti a sé. Accanto a sé vuole dei figli liberi.

E si potrebbe anche chiedere perché mai Dio non ha creato un'umanità che si “doveva” interamente salvare.                           La risposta sarebbe, di nuovo, il rimando alla libertà umana. Celiamo, forse, più enigmi di quanto sospettiamo.

4. l'inferno non può essere una pura ipotesi?

C’è chi; a partire dalle difficoltà segnalate, ritiene si possa pensare che all'inferno sarebbe una pura ipotesi, poiché non esisterebbe nessun dannato.
Che dire?
A parte gli angeli ribelli, come s’è detto, la Parola di Dio non solo non ci dà l’identità di qualche dannato, ma neppure ci assicura che ve ne siano.
E allora?
Non pare che la volontà di Dio di salvarci tutti in Cristo sia un motivo valido per concludere che tutti si salvino. Di nuovo: la libertà umana è da prendere in considerazione.
Non pare neppure che il paradosso di una felicità di Dio dei beati per il riconoscimento della responsabilità di eventuali dannati, costringa a negare l'esistenza di dannati stessi. Non pare.
Rimane, semmai, la consapevolezza dei limiti a cui la libertà umana è sottoposta. Come può una capacità di scelta tanto fragile e condizionata, determinarsi con tutte le forze contro Dio e contro la propria felicità?
Ma anche qui, non va dimenticata nella profondità dell'amore che Dio ci ha dimostrato, né l'efficacia della redenzione che “libera” la libertà dell'uomo.

Certo, nella predicazione occorrerà evitare di esprimersi in modo tale da far intendere che l'inferno, poco o tanto, sia popolato. E le rivelazioni private non possono recare certezze che la Fede non offre.
Si può - forse si deve- sperare che la bontà di Dio faccia sì che tutti si salvino. E’ una posizione, questa, che oscilla tra il misticismo più alto e la possibile grettezza più meschina. Lo sperare che tutti si salvino può indurre a impostare una vita tutto sommato sconsideratamente superficiale, se non tristemente disinvolta. Può anche impegnare fino allo stremo le forze personali per rispondere a Dio e lasciarsi perdonare e amare.
Ma chi certifica che tutti si apriranno all'iniziativa di Dio?
A cominciare da noi stessi?
Meglio lasciare la speranza per ciò che è: senza equivocarla; senza trasformarla In fatto creduto.
E tacere, abbandonandosi al mistero di Dio.
E pregare. E poi - o innanzitutto -, sarebbe bello ritenersi personalmente certi della salvezza? Che cosa faremmo di tale sicurezza?

5. Si danno anticipazioni dell'inferno?

Sembra di sì, se si pone mente al fatto che la dannazione altro non è se non la definitività svelata della situazione di peccato.
Ma si tratta di anticipazioni certe e univoche? Il rimorso. La solitudine. La mancanza di gusto di passione nello studio nel lavoro. Ecc. Non sono condizioni di vita che si possono rivedere? Non sono condizioni di vita che addirittura possono sospingere alla conversione? “Etiam peccata”. E, poi, una tristezza può diventare insopportabile. E non bisognerà vergognarsi, se Dio ci conduce alla santità anche più sublime perché altre strade percorse hanno deluso.

Allora, anche la fatica della vita cristiana potrebbe apparire un mezzo per unirsi a Cristo. Finché dia qualche bagliore di letizia. E, poi, la Letizia piena. Ancora enigmi. Da lasciare tali. E da affidare all’argano di Dio. Non sappiamo tutto. Dio ci ha detto e dato quanto bastava per conoscere e sperimentare la partecipazione alla sua grazia e alla sua gloria. O meglio: ci ha dato tutto, ma non tutto ci ha detto. Siamo chiamati ad amare più di quanto conosciamo.



giovedì 6 dicembre 2018

I NOVISSIMI - IL GIUDIZIO PARTICOLARE - CAPITOLO III


I NOVISSIMI


IL GIUDIZIO PARTICOLARE

Capitolo III

1.   che cos'è il giudizio particolare?

Intanto, è forse bene avvisare che si lasciano al lato opzioni teologiche che non sono la fede. Vi sono studiosi che, giustamente, parlano di assenza di tempo - del nostro tempo-  dopo la morte. E’ che -  non si sa se conseguentemente sovrappongono giudizio particolare, giudizio universale, resurrezione dei morti, ecc. come se tutto avvenisse in un istante.
Ignoriamo. Certo, nell'aldilà - esprimiamoci così - non si ritrovano minuti, ore, giorni, settimane,. Mesi, anni, secoli, millenni, come li misuriamo noi. Ma nell'aldilà non ci si imbatte soltanto con l'eternità di Dio, che è pienezza di vita assoluta immutabile;  si incontra anche il persistere di enti finiti come siamo noi, persone umane, per non parlare degli Angeli. Le quali persone umane, pur nella beatitudine raggiunta - o no - , continuano ad esistere, durano in un tempo qui a noi, lungo vita terrena, non è dato di sperimentare di conoscere.
Accontentiamoci, allora, di usare dei concetti che ci sono familiari -  gli unici comprensibili - , con la riserva di una diversità che ci sfugge. Il giudizio particolare, dunque. Distinto da quello universale.
Non c'è da immaginare chissà cosa: uno scranno di giudice, col giudice seduto sopra, la giuria, il pubblico ministero, gli avvocati di difesa, gli spettatori, ecc. O forse sì, come vedremo. Ma trasferendo l'avvenimento su un altro piano. E tralasciando almeno lo scranno. Quando uno muore, la sua anima si separa dal corpo e l'io compare davanti al Signore in una luminosità senza veli e senza angoli nascosti o nascondibili.
Allora, la persona messa a tu per tu con la verità di Dio, non ha bisogno di discussioni e di sentenze. Si  vede come è veduta dagli occhi davanti ai quali nulla è oscuro. Si giudica da sé, in qualche modo. Felicemente o tragicamente, non può non giudicarsi da sé. O meglio: con lo sguardo di Dio. Quasi di riverbero. Si scorge in comunione o in opposizione a Dio, o bisognosa di purificazione, prima di essere ammessa nell'intimità beatificante della vita trinitaria sperimentata in modo immediato.
Curiosità comprensibili: e quando e dove avviene il giudizio particolare? Pure qui, non esiste motivo di fantasticare. Il giudizio sulla persona avviene quando e dove la persona muore.
Non ci si dovrà stupire neppure quando si concretizza la scena seconda verità. A valutare sarà Cristo presente: colui al quale è stato dato ogni giudizio perché è venuto non condannare, ma a salvare il mondo.
Lo spirito ci assisterà come “difensore” e, attraverso il Signore Gesù, ci condurrà al Padre. Anche gli angeli parteciperanno: quelli buoni che ci hanno assistito e quelli cattivi che ci hanno tentate male. Anche la Madonna e i santi ci giudicheranno. Maria, che ci ha seguito come madre lungo la vita con la sua mediazione, e che ci attende impaziente. E poi, gli Apostoli che siedono a giudicare le tribù d’Israele diventate l'umanità. E poi, i Santi. Non solo quelli da calendario, da martirologio e da canonizzazione o da beatificazione, ma anche quelli ignoti che pur han vissuto nella grazia, magari con noi. La mamma. Il papà. I nonni. Qualche fratello. Gli amici. Tutti coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace. Dormo nel vegliano. Con la gioia di chi riceve una persona cara per la quale hanno pregato. Che hanno aspettato con impazienza. E avranno negli occhi un rapido sospiro. Non ci si dovrà stupire di queste presenze. E perché la nostra vita scorre sotto lo sguardo di tutto il paradiso. Non ci confessiamo anche agli angeli e ai Santi? E perché il silenzio dei morti non significa lontananza, ma prossimità tale da non poterli più scorgere. A cominciare dal Signore Gesù, pur risorto. Ed alla Vergine, pur Assunta anche col corpo. E poi, via via, gradatamente. Facendo valere i vincoli di sangue, ma anche quelli della carità, che leggano ancor di più. Non bisognerà sognare il “cielo” come un luogo lontano e inaccessibile ed estraneo a noi. Il “cielo” è una dimensione arcana che ci avvolge, che ci accompagna, ci soccorre, ci riceve con premura e affetto. In “cielo”.  Meglio: coloro che lo abitano; vale a dire, che sono in Dio e che tacitamente ma profondamente ci sono vicini.

2.            Quale sarà il contenuto del giudizio?

Al vespro della vita, saremo giudicati sull'amore.
E qui il pensiero corre subito al capitolo venticinquesimo del Vangelo di Matteo: avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero malato, carcerato, ecc.  Oppure no. Venite, benedetti dal Padre mio.
Via da me, maledetti.
Certo, l'amore al prossimo sarà un test infallibile. Non possiamo amare Dio che non si vede, se non amiamo il fratello vicino che si vede. E tuttavia, in quella direzione al prossimo va intuita tutta la legge fin nelle sue minuzie. Vanno colti tutti i messaggi che Dio ci ha inviato lungo l'intera esistenza. Dio, che, in Gesù Cristo e nello Spirito, è come in agguato a ogni crocicchio di strade. L'amore è impaziente, esigente, determinato, testardo. La preghiera ordinata è prolungata: Dio, il primo servito. L'attenzione ai poveri: ai poveri non solo di soldi, ma di certezza di non essere inutili, di motivi per vivere, di speranza, ecc. E poi tutti i comandamenti e i precetti. Fino a quegli appelli che Dio lancia nella normalità di giorni qualsiasi e che potrebbero ribaltare l'esistenza .
Sarà un Amore vivente a giudicarci sull'amore. Constateremo, senza possibilità di sotterfugi e di mascherature, se l'avremo  accolto o respinto. La giustizia è come dentro questo Amore che nonno troneggia e non si impone, ma si offre in una debolezza che può essere scansata o schiacciata quasi con disinvoltura.
Lo stile di Dio non è quello fracassone è paludato, che scardina le porte del cuore. E’ quello di un’Onnipotenza che si fa Onnifragilità e bussa. Entra soltanto se gli si apre dall'interno.
E vertiginosa questa iniziativa di tenerezza che rispetta la libertà fino a lasciarsi uccidere. Ma è proprio questa iniziativa di tenerezza che diviene esigentissima: sulla misura in cui si è donata: sino alla fine.
Ed è misericordia che non si stanca di perdonare. Va da sé che ciascuno sarà giudicato in base ai doni che ha ricevuto. Come della parabola dei talenti, dove vige la proporzione, non l'assoluto.  E anche l'aver nascosto l'unico talento per paura, sarà colpa. La colpa di chi blocca la freschezza debordante della risposta alla dilezione di Dio. La colpa della neghittosità, del disinteresse, della svagatezza. Un amore che non cresce, si estenua. Muore.
Va da sé, ancora, che ciascuno sarà giudicato in base alla Fede, alla speranza, alla carità, alla appartenenza alla chiesa, alla pratica religiosa, ecc. è riuscito a ricevere da Dio e a vivere come risposta a Dio. Con la fedeltà di cui è stato capace.
Va da sé, ancora, che anche l’ateo trova Dio oltre la morte. L’ha davvero negato lungo l’esistenza terrena, o ne ha rifiutato una caricatura? C’è un odio allo stato puro verso Dio? Ci può essere indifferenza Per tutta la vita?

3.            Ci sarà libertà di scelta, dopo?

Dopo la morte no.
La libertà, all’istante del morire si fisserà per sempre nel bene o nel male che ha scelto come assoluto.
L’esistenza terrena – un’esistenza ancora in divenire – può cambiare oggetto d’amore. Può decidere per la santità più eccelsa o per la dannazione più ingrata e ostinata. Oscilla. E a essa, è data la capacità di scegliere tra la luce e le tenebre, tra Dio e l’impossibile nulla.
La libertà può astenersi dal decidere il proprio destino?
No. Dio non è facoltativo. E in questo sta la responsabilità della vita. Anche il disinteresse è decisione contro. Poiché nell’intimo abbiamo un insopprimibile bisogno di Dio. Possiamo assecondare questa esistenza. La possiamo contrariare. Non la possiamo distruggere. Siamo vuoto che chiede d’essere colmato. Siamo attesa che invoca d’essere esaudita.
A noi la nostra sorte. E’ nelle nostre mani. Forse non si dovrà nemmeno immaginare atomisticamente una molteplicità di scelte, ciascuna a sé stante. La vita ha un orientamento di fondo che è formato e si esprime in decisioni singole, in gesti singoli. Ma tali decisioni e tali gesti sono coordinati così che il bene o il male diventa sempre più facile, quasi istintivo. La dolcezza del giogo pesante, Il peccato frutto del peccato.
Senza negare la possibilità di revisione. Ma anche senza affermarla con necessità disinvoltura ad ogni momento.
Ciò significa che ci si può convertire negli istanti più impensati: anche in punto di morte. Ma non si potrà far affidamento su questa estrema istanza per condurre un’esistenza opaca o sciagurata. In tal modo ci si burla di un amore che si consuma per noi.
E lasciamo aperta la strada al miracolo. Dio agisce ben oltre le nostre misure.
Si potrebbe pensare che, se la nostra libertà si stabilisce per sempre al momento della morte nell’orientamento che ha preso, proprio il momento della morte sia l’atto di libertà più completo e più puro.
Può essere. C’è da augurarsi che sia.
Ma Chi ci assicura che l’istante del passaggio nell’eternità – del passaggio fisico, se si può dire – sia cosciente e sia libero come vorremmo? E allora, pur sapendo di parlare dell’egmatico, non ci si dovrebbe convincere che vi sono nella vita decisioni che condiziona per sempre? E quando collocare questa decisione? Potremmo anche ignorarlo.
Lo scorrere del tempo ci appare così da gestire con insistensità costante e crescente. La vigilanza di cui parla il Vangelo. Che non si riferisce soltanto alla morte, la quale può giungere inattesa. La morte che subita viene. Si riferisce anche all’attimo che si sta vivendo, che passa, e che può determinare la beatitudine o la dannazione. Si danno conversioni a piacere? Ad appuntamento? O non è piuttosto il mistero di Dio che stabilisce questi incontri? E che incalza? È che non ci abbandona, se non è da noi abbandonato? Ma, appunto, non riusciamo ad abituarci ad abbandonare Dio?

4.            È possibile una coscienza certa e tranquilla?

Verrebbe, d’istinto, di rispondere di sì. Non siamo noi deliberare e ad operare? Non ci possiamo guardar dentro per vedere quasi ad occhio nudo chi siamo? Se viviamo in grazia o in peccato?
Fosse così facile lo scandaglio del cuore.
Il fatto è che non ci è concesso tanto agevolmente di conoscerci.
Per vari motivi.
Perché soltanto dalle opere riusciamo a risalire all’io che le compie. La saggezza della confessione “Tridentina”.
Perché siamo troppo inclini alla slealtà nel valutarci. Anzi, ci facciamo orrore, se dobbiamo registrare in noi le mezze misure, le svogliatezze, le neghittosità, le biglietterie, i tradimenti che portiamo in animo.
Possiamo conoscerci e accettarsi come siamo, senza spavento, senza schifo - pardon, ma è vero -, soltanto se siamo certi che un Altro ci conosce e ci accetta, e non prova paura poiché la paura l'ha già tutta assunta, gustata e superata sulla Croce.
Il che è quanto dire che apprendiamo la nostra condizione non quando scaldagliamo il nostro intimo solipsisticamente, ma quando ci lasciamo squadernare il cuore sotto lo sguardo di Dio. La menzogna, il trucco, il velario, gli angoli bui sono tanto a portata di mano, che quasi non ci accorgiamo neppur più di ingannarci. Dai peccati nascosti, liberami O Signore. Nascosti anche a me stesso. La preghiera, piuttosto, è l'esame di coscienza più felice e corretto. Forse l'unico consentito. Il metterei davanti al Signore e chiedergli come e chi siamo. Il metterei davanti al Signore e sapere che gli crede in noi più di quanto noi crediamo in noi stessi e ci ama più di quanto ci amiamo ed è desideroso di perdonarci più di quanto noi siamo desiderosi di essere perdonati.
Ecco, l'invocazione della misericordia rimane l'ultima parola l'autocoscienza. Il sentire il peso greve e affannoso del peccato, ma l'esser certi che il Signore ha un cuore più grande del nostro. Non a caso, riflettendo sulla morte, viene subito in mente il sacramento della penitenza. Il dirsi fiducioso. L’esprimere le proprie brutture che dovrebbero allontanare Dio, ma con la sicurezza che Dio ci accoglie e ci rinnova. Fossimo dei criminali. Fossimo dei gretti astuti, tentati di giustificarsi, ma pure convinti che non possiamo liberarci dal peccato con le sole nostre forze; e che il Signore non ci ributta indietro, nemmeno dopo l'ennesimo tradimento.
Non a caso, chi muore cosciente,in umiltà, ha sulle labbra parole di pentimento. Gesù mio, misericordia. Che poi altro non è che il riassunto della preghiera cristiana: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore.
E’ questa, della preghiera e del sacramento della Penitenza, l'anticipazione più vera del giudizio particolare. L'offrirsi così, perdendosi in un amore che perdona. In un amore che placa ogni terrore. Che acquieta ogni dubbio. Ci si lascia amare. E ci si dà per quel niente che si è. Un niente che si è inarcato nella ribellione della colpa, ma ora si piega nella ricezione del dono; nella consegna del dono di sé. E va a capire come Dio goda ad accogliere questi sgorbi che siamo. Quegli ingrati. Quei distratti. Quei banali. Quelli ribelli. Ma capaci di lasciarci usare misericordia, se Dio ci aiuta.

5.            La retribuzione è immediata?

Uso la parola retribuzione perché è quella solitamente usata. Anche se sa un po' di “diritto” che non abbiamo. Poiché tutto è dono del rapporto con Dio.
Ebbene, sì. E’ immediata la comunione perfetta e beatificante con Dio. Ho la dannazione, Dio non voglia; o meglio, non vogliamo noi. Dopo la morte. All'istante della morte.
A meno che non siamo pronti né per il paradiso né per l'inferno, poiché non ci siamo lasciati salvare pienamente; non abbiamo risposto con tutte le forze alla direzione di Dio.
Allora si apre l'attesa della purificazione. Che, però è già certezza della gloria.
C'è da chiedersi se, consapevoli delle nostre grettezze, questa attesa non sia sorte di molti. Ma qui occorre essere caduti. Dio vede macchie anche negli angeli. Dio perdona Senza riserve. Tutto e sempre. La difficoltà nasce da noi.