mercoledì 19 dicembre 2018

I NOVISSIMI - CAPITOLO IV - L'INFERNO


I NOVISSIMI

L’INFERNO

Capitolo IV

1. Dove l'inferno? Ci sono tanti dannati?

Ecco alcune domande che possono essere tra le più spontanee, ma che rischiano di spingere quanto meno all'equivoco nell'interpretazione di un dato rivelato tra i più conturbanti.
La curiosità circa il “luogo” dell'inferno può essere soddisfatta con una riflessione teologica. Se ci sì rende conto del fatto che l'aldilà non riserva sorprese soltanto circa il tempo, come abbiamo notato, ma, forse, anche circa lo spazio. Si tratta di uno spazio simile al nostro, o addirittura continuo al nostro?
Dove immaginarlo? Ma poi, o ancor prima, ha senso uno spazio di dannazione per anime o persone che sono entrate in una fase di esistenza che non è più terrestre e in un divenire come il nostro eppure diverso dal nostro? Non si tratta di riaggiustare la concezione dell'universo, geocentrica, eliocentrica o altro. Si tratta, molto più radicalmente, di intuire che si è ad un piano diverso di realtà e, dunque, di comprensione. Si dica, allora, che inferno è uno stato di vita, frenando un poco la fantasia. O usandola, ma con la costante consapevolezza che le immagini sono materiale da interpretare. Per quanto concerne, invece l’eventuale “popolazione” dell’inferno – “quanti”  è “chi”-, siamo di fronte a interrogativi a cui Cristo stesso si è sempre rifiutato di rispondere.
Si possono analizzare tutti i testi del Signore Gesù o della Chiesa primitiva o del Magistero susseguente: nessuno di essi permette di affermare con sicurezza che – a parte gli angeli decaduti – vi siano uomini dannati. Ancor meno si riesce a stabilirne il numero e l’identità. Nemmeno per Giuda. “Ma secondo testimonianze di esorcisti Giuda si è dannato”.
Allora porta larga attraverso la quale molti sono coloro che entrano nel fallimento finale dell’esistenza, si può opporre la preghiera di Cristo che è venuto a redimere tutti, o la volontà di Dio che vuole tutti salvi e che nessuno perisca.
Pro e contro. Non si è alle prese con un rompicapo. Si è di fronte ad una precisa volontà del Signore Gesù, il quale non intende dare una sorta di “réportage” in anticipo su ciò che sarà oltre la morte e oltre la conclusione dell’universo.
Intende, invece, responsabilizzare sempre la persona. Vigilate. Pregate. Fate penitenza. Ecc. Se no, la possibilità è il destino di disperazione senza fine. Il discorso di fede, comunque, non va mai incontro a prurigini per sapere gli esiti della libertà umana che si misura con Dio; interpella, invece, la libertà umana perché si converta e accolga la dilezione e la misericordia di Dio.
Non si discuta dei “novissimi” come di “cose” che avvengono. Ci si mette in questione davanti ai “novissimi” che aprono opposte possibilità alla libertà. La storia dei risultati la si vedrà poi, a conclusione avvenuta.

2. In che cosa consiste l’inferno?

Forse, sarebbe più agevole dare prima gli insegnamenti rivelati circa il paradiso, e poi ribaltare l’esposizione per intravedere la realtà dell’inferno.
Qui si è preferito seguire lo schema catechistico tradizionale negli ultimi secoli. Del resto, anche gli accenni che si faranno alla beatitudine presuppongono un poco tutta l'esposizione del dato rivelato circa Dio, la creazione, l'uomo, il peccato d'origine, Gesù Cristo, la chiamata dell'umanità alla salvezza, la Chiesa, ecc. Tutto il “Credo”, insomma, con qualche puntata della morale.
Un metodo per giungere a dire qualcosa di sensato - di rispondente alla rivelazione - può essere quello di analizzare la situazione del peccatore, portandola alle sue estreme conseguenze. Poi si consiglieranno meglio gli spunti per una qualche comprensione dell'inferno. Dell'inferno, o, forse meglio, della dannazione, o del dannato, poiché si tratta di soggetti umani che sono in gioco. Si parla di noi, almeno come rischio o possibilità.
Come è noto, si dà peccato grave o mortale: si dà - quella scelta, cioè, che la persona - e la persona credente in particolare - compie contro Dio, rifiutando il suo amore per ribellione - o per noncuranza. Anche la noncuranza può essere disprezzo sottile: almeno perché l'uomo ha in sé il bisogno insopprimibile di Dio per capirsi e attuarsi nel mistero del perdono e della grazia.
Ora, nel peccato veramente grave o mortale, l'uomo non si limita a compiere dei gesti oggettivamente contrari alla legge morale - naturale ed evangelica - ;impegna tutta la sua libertà, decidendo pienamente e definitivamente In opposizione a Dio che si manifesta in Cristo. Pienamente. Ciò significa che, per quanto sta il lui, l'uomo impegna tutte le proprie forze. Definitivamente. Ciò significa che, per quanto sta il lui, l'uomo determina il proprio destino per sempre. Il fatto, poi, che egli possa ripetere la scelta compiuta, dipende dalla sua condizione terrena ancor fluida, non cristallizzata, se si può dire.
Col passaggio della morte, come si è rivelato, la capacità di decisione si fissa irreversibilmente sul valore, o non - valore, su cui si è puntato la vita.
Il peccatore, di là dal tempo della salvezza, si scopre , così , come un io ha voluto erigersi ad assoluto , del vero è del falso, del bene e del male, costruendosi da sé il proprio progetto di vita e il proprio destino. l'autonomia assoluta è la caratteristica del peccato.
Il Dio condiscendente che si para davanti al dannato: il Dio che ha mandato il suo figlio unigenito a farsi uomo e a morire e risorgere per noi; il Dio che in Cristo ha effuso lo Spirito di grazia e di consolazione nella Chiesa nel mondo: questo Dio viene rifiutato totalmente ed eternamente.
La scelta contro Dio potrebbe apparire come un fatto estraneo o, quantomeno, periferico all'uomo, se non si ponesse mente alla necessità, all'esigenza che l'uomo porta in sé di attuarsi pienamente nel Dio di Gesù Cristo. Il mistero dell'uomo trova spiegazioni e attuazione soltanto nel più grande mistero di Cristo.
Ciò non solo a causa del peccato di origine e delle colpe susseguenti che l'uomo ha bisogno di farsi perdonare. Ma anche perché l'uomo storico non raggiunge la propria perfezione, se non la riceve dall'esterno, da altro da sé: dal Dio Redentore che chiama l'uomo a partecipare alla sua vita di grazia.
Paradosso dell'uomo, che non può rimanere soltanto uomo: deve scegliere tra essere “divinizzato” o “incompiuto”: colpevolmente incompiuto. E dissociato. Dissociato, perché egli non ha il potere di annullare la tendenza, l'aspirazione, l'esigenza - ridiciamo la parola - di comunione e di vita con Dio. E, d'altra parte, non si accetta il punto da compiere liberamente questa esigenza nella comunione con Dio.
Si opera in tal modo una sorta di schizofrenizzazione esistenziale, prima che psicologica, del dannato. Una schizofrenizzazione che è orientamento voluto all'assurdo. Ha bisogno di riamare Dio. In questa risposta troverebbe la felicità. Non la vuole, questa felicità. Ma, al tempo stesso, non gli è dato di sradicare dal cuore il bisogno di Dio. La contraddizione è evidente. Il tragico è che la contraddizione è deliberata.
La sofferenza che ne deriva può essere solo intravveduta a partire dall'esperienza del rimorso a cui non si vuol dare ascolto e che permane.
Se, poi, è vero - com'è vero - che l'uomo è un essere sociale, chiamato non solo alla solidarietà dell'identica stirpe, ma alla comunione fraterna che ha per nodo segreto lo Spirito che conforma a Cristo e che di molti fa "uno" in Cristo, allora risulta chiaro che il peccato è solitudine e la dannazione è solitudine portata all'acme. Solitudine che si traduce in odio lucidissimo, fermissimo e irrevocabile.
V'è un altro aspetto da mettere in evidenza. L'uomo, in "Adamo" e sovrabbondantemente in Cristo, è vocato ad un rapporto col cosmo, che è insieme di contemplazione e di misurato e gioioso dominio. Ciò dovrebbe avvenire pienamente oltre il tempo.
Questo rapporto armonico con le cose create viene rotto mediante il peccato che è disgregazione. Diventa sopruso - sopruso voluto - della natura sul dannato. Ciò che doveva essere motivo di letizia, diviene motivo di sofferenza recata al sommo. Monti, cadete su di noi e seppelliteci. Ma anche il seppellimento non è annichilazione.
La violazione di queste componenti essenziali dell'uomo - la componente religiosa, di accoglienza di sé, di amore fraterno e di contemplazione e dominio del cosmo - : tale violazione non è stato episodico o passeggero nel dannato: è condizione eterna, non mutabile, non correggibile. Per il semplice fatto che il dannato si è liberamente posto in una situazione definitiva. E’ la disperazione senza scampo.
In termini tecnici, la teologia dei vecchi manuali si esprimeva fermando che c'è la “pena del danno”, derivata dalla contrapposizione a Dio, e la “pena del senso”, derivata dal contrasto con le realtà materiali. E richiamava il “fuoco” in chiave simbolica giustamente. C'è da stupirsi che, di solito, non prendesse in considerazione anche quella che si potrebbe chiamare la “pena della solitudine”. Ma l'omissione è da imputare, forse, ad una certa concezione individualistica dell'aldilà come dell'aldiquà, si parla di queste cose con spavento. E una certa chiarezza e un certo sforzo di riflettere sull’esperienza del peccato non fanno che accrescere lo smarrimento, il panico.

3. Perché l'inferno?
Qualche spunto di risposta è già stato offerto al interrogativo. Ma c'è da pensare che l’interrogativo stesso si riferisca al nocciolo della questione. Vale a dire: come è ipotizzabile che Dio possa permettere peccati che sono causa dell'infelicità radicale dell'uomo? Che Dio possa castigare persone che ha creato per la felicità? Che Dio possa essere beato a ricevere gloria dalla dannazione di coloro che erano chiamati a essere suoi figli in Cristo? Non si rende vana la redenzione per cui il Signore Gesù è morto? E come riescono i beati a godere della disperazione di persone che magari sono state loro care? il caso di una mamma che vede il figlio dannato. Ecc.
Forse è bene mettere ordine in domande che si arruffano anche perché nascono dall'inquietudine.
Il “perché” dell'inferno non va, probabilmente, identificato nel Dio che condanna e punisce.
Qui occorre precisare che Dio non è essere volubile, capriccioso, che, a volta a volta, si mostrerebbe vendicativo fino al sadismo, ho bonaccione fino alla mancanza di serietà. Dio non è neppure un essere eccentrico è un po' avaro che dalla “massa dannata” che sarebbe l'umanità, sceglierebbe chi vuole - pochi? - per la beatitudine, abbandonando gli altri al loro destino, magari per la solo colpa d’origine contratta motivo dell'unico fatto di esser venuti al mondo.
No. Dio è giusto. Purché si intende la sua giustizia non nel senso di una parità con noi: una parità per la quale si possa dare a ciascuno - anche a Dio – “ciò che è dovuto”, sentendosi poi a posto con la coscienza.
La giustizia di Dio è quella di un essere trascendente assoluto, creatore e Signore dell'universo della storia.
Ma veniamo al punto: la sua giustizia quella di un Dio che, rimanendo trascendente, assoluto, ecc., crea per amore volendo tutti e tutto riassumere in Cristo, anche dopo il peccato. Non è detto impunemente: Dio vuole che il peccatore si converta e viva; Cristo ha dato la vita per voi e per tutti, ed è venuto tra noi per salvare ciò che era perduto.
Se si vuole: la giustizia di Dio è come inclusa è superata dall'amore e dalla misericordia. Ciò, d'altra parte, non deve indurre ad immaginare una più attenuata esigenza nel rispondergli, quand'anche non a immaginare una sorta di lecita svagatezza nei suoi riguardi, poiché, tanto, egli dilige e perdona: passa sopra un poco a tutto.
Un simile modo di ragionare - di sragionare - non è rispettoso nei di Dio, né dell'uomo.
Non di Dio, poiché non si può prendere a gabbo una benevolenza che, in Cristo, è finita sulla croce per salvarci nella morte e resurrezione. Contro ogni impressione superficiale, l'amore impegna maggiormente che non la pura giustizia. Impegna maggiormente perché, mentre, misurandosi sulla giustizia, ci si può - illusoriamente - sentire alla pari con Dio, non più suoi debitori, non più bisognosi del suo perdono e del suo aiuto; nel caso dell'amore, è di un amore di Dio condotto sino alla fine, non si non si riuscirà mai a sentirsi tranquilli, a togliersi di dosso l'assillo che non si è ancora fatto tutto per riamare a misura. Si impone una responsabilità costante è crescente. Si impone l'umiltà di chi chiede misericordia.
Né l'amore, e singolarmente quello di Dio, è un sentimento vago a cui si può esser fedeli con tutto e il contrario di tutto. A ben riflettere, l'amore non è soltanto esigente fino allo spasimo, ma è preciso fino alla minuzia. Ama e fa ciò che vuoi, ma quando l'amore ha assunto e interiorizzato la legge fino alla spontaneità. Un ideale, questo, da non attribuirsi troppo frettolosamente.
Detto ciò, si può almeno intravedere che l'inferno non è opera di una fantomatica ira o vendetta di Dio. Per quanto strana la cosa possa sembrare, l'inferno è fatto dall'amore. “Fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore”, è scritto sulla porta dell'Inferno dantesco. Con l'acutezza che deriva dalla fede.
Solo occorre aggiungere che l'inferno è fatto di un amore rifiutato. Il dannato, perciò, non è cacciato, separato, rinchiuso dell'inferno, oggetto di tormenti inflittigli chissà da chi. Il dannato si è autoescluso dal trepido amore di Dio che lo ha incalzato lungo la vita terrena e che persiste anche dopo.
Ha consumato la colpa irremissibile in questo secolo e nel futuro: irremissibile non Perché Dio non possa o non voglia perdonarlo, ma perché il peccatore ostinato si è chiuso in sé stesso, non si è lasciato amare e perdonare.

La riflessione, perciò, deve portarsi sulla libertà umana capace di irridere un amore che muore sulla Croce, capace di non avere misericordia di una misericordia - quella di Dio - che non si ritrae davanti ad alcuna nefandezza. Gli altri interrogativi possono presentare delle difficoltà. Non conducono necessariamente ad assurdi. Dio che goda e abbia gloria dai dannati. Ma è la libertà umana il valore sommo che Dio vuole onorare. La mamma che vede il figlio, ecc. Anche qui, nessuno può sostituire la libertà di un altro. Ed è prendere con serietà l'altro, il rispettarlo nelle sue decisioni. Ma chissà.
Dio non vuole degli schiavi davanti a sé. Accanto a sé vuole dei figli liberi.

E si potrebbe anche chiedere perché mai Dio non ha creato un'umanità che si “doveva” interamente salvare.                           La risposta sarebbe, di nuovo, il rimando alla libertà umana. Celiamo, forse, più enigmi di quanto sospettiamo.

4. l'inferno non può essere una pura ipotesi?

C’è chi; a partire dalle difficoltà segnalate, ritiene si possa pensare che all'inferno sarebbe una pura ipotesi, poiché non esisterebbe nessun dannato.
Che dire?
A parte gli angeli ribelli, come s’è detto, la Parola di Dio non solo non ci dà l’identità di qualche dannato, ma neppure ci assicura che ve ne siano.
E allora?
Non pare che la volontà di Dio di salvarci tutti in Cristo sia un motivo valido per concludere che tutti si salvino. Di nuovo: la libertà umana è da prendere in considerazione.
Non pare neppure che il paradosso di una felicità di Dio dei beati per il riconoscimento della responsabilità di eventuali dannati, costringa a negare l'esistenza di dannati stessi. Non pare.
Rimane, semmai, la consapevolezza dei limiti a cui la libertà umana è sottoposta. Come può una capacità di scelta tanto fragile e condizionata, determinarsi con tutte le forze contro Dio e contro la propria felicità?
Ma anche qui, non va dimenticata nella profondità dell'amore che Dio ci ha dimostrato, né l'efficacia della redenzione che “libera” la libertà dell'uomo.

Certo, nella predicazione occorrerà evitare di esprimersi in modo tale da far intendere che l'inferno, poco o tanto, sia popolato. E le rivelazioni private non possono recare certezze che la Fede non offre.
Si può - forse si deve- sperare che la bontà di Dio faccia sì che tutti si salvino. E’ una posizione, questa, che oscilla tra il misticismo più alto e la possibile grettezza più meschina. Lo sperare che tutti si salvino può indurre a impostare una vita tutto sommato sconsideratamente superficiale, se non tristemente disinvolta. Può anche impegnare fino allo stremo le forze personali per rispondere a Dio e lasciarsi perdonare e amare.
Ma chi certifica che tutti si apriranno all'iniziativa di Dio?
A cominciare da noi stessi?
Meglio lasciare la speranza per ciò che è: senza equivocarla; senza trasformarla In fatto creduto.
E tacere, abbandonandosi al mistero di Dio.
E pregare. E poi - o innanzitutto -, sarebbe bello ritenersi personalmente certi della salvezza? Che cosa faremmo di tale sicurezza?

5. Si danno anticipazioni dell'inferno?

Sembra di sì, se si pone mente al fatto che la dannazione altro non è se non la definitività svelata della situazione di peccato.
Ma si tratta di anticipazioni certe e univoche? Il rimorso. La solitudine. La mancanza di gusto di passione nello studio nel lavoro. Ecc. Non sono condizioni di vita che si possono rivedere? Non sono condizioni di vita che addirittura possono sospingere alla conversione? “Etiam peccata”. E, poi, una tristezza può diventare insopportabile. E non bisognerà vergognarsi, se Dio ci conduce alla santità anche più sublime perché altre strade percorse hanno deluso.

Allora, anche la fatica della vita cristiana potrebbe apparire un mezzo per unirsi a Cristo. Finché dia qualche bagliore di letizia. E, poi, la Letizia piena. Ancora enigmi. Da lasciare tali. E da affidare all’argano di Dio. Non sappiamo tutto. Dio ci ha detto e dato quanto bastava per conoscere e sperimentare la partecipazione alla sua grazia e alla sua gloria. O meglio: ci ha dato tutto, ma non tutto ci ha detto. Siamo chiamati ad amare più di quanto conosciamo.