giovedì 26 settembre 2019

HO ASSISTITO A UN ESORCISMO - Don Francesco Cupello


HO ASSISTITO A UN ESORCISMO
Don Francesco Cupello


E vengo finalmente al racconto della mia esperienza personale, che avevo annunciato più sopra. In verità si tratta solo di un caso, ma a me è servito molto per rendermi conto della serietà delle possessioni diaboliche e dell’estrema necessità di esorcismi ed esorcisti. E devo dire che ha anche rafforzato la mia fede, perché davanti a un vero esorcismo si fa una forte esperienza del soprannaturale. Paradossalmente, quindi, il demonio è l’entità che dimostra con più evidenza l’esistenza della SS. Ma Trinità, la potenza della vergine santissima e la difesa con il male per intervento dei Santi.
Un mio confratello un giorno mi chiese se potevo far celebrare un corso di Messe gregoriane richiesto da una persona lontana da Roma e dalla regione Lazio. Io rimasi meravigliato che tale richiesta venisse da lontano e obiettai che quella persona bastava che cercasse in qualche monastero o Istituto religioso nella sua regione e non  avrebbe trovato difficoltà a reperire un sacerdote disponibile. Ma quel mio confratello insistette, senza peraltro rispondere alle mie obiezioni. E la cosa mi lasciò un po’ interdetto. Dopo non molto tempo mi fu annunciato, non ricordo se da quel confratello o dalla stessa persona interessata, che quest’ultima sarebbe venuta a Roma per la sua richiesta. E una mattina venne in compagnia del fratello. Era un giovane sui 27 – 28 anni, ma che dimostrava di meno: molto fine nei modi, di statura medio-alta, magro, piuttosto timido, di ottima famiglia, come appresi dalle risposte che diede alle mie domande. Mi chiese delle Messe gregoriane e rispose alle mie obiezioni con molta sicurezza, portando come unica motivazione che non trovava sacerdoti disponibili. Me ne chiese tre corsi, tutti per suoi familiari defunti, nonni e zii. E senza batter ciglio mi mise sulla scrivania l’offerta di 1.050 euro. Abbiamo parlato ancora per un po’, poi improvvisamente quel giovane mi chiese, anzi mi implorò, se potevo fargli il grande favore di poter incontrare, anche molto brevemente, Padre Amorth. Capii finalmente il vero motivo che lo spingeva a Roma e fino a me, per far celebrare delle Messe. Naturalmente a lui non manifestai questo mio pensiero e mi limitai a dirgli che una richiesta così improvvisa, senza previo appuntamento, di un incontro con Padre Amorth era quasi impossibile da soddisfare, tanto più trattandosi di una persona non della Diocesi di Roma. Rimasi un po’ frastornato e poi, ripetendogli più volte che non gli promettevo nulla e che si disponesse a un molto probabile rifiuto, gli dissi che ci avrei provato.
“Aspettami qui (ero nel mio ufficio)” gli dissi, e andai a bussare alla camera di Padre Amorth. Gli spiegai la cosa e lo pregai vivamente di riceverlo. Dopo un po’ di tergiversazione, convinto che si trattasse solo di una richiesta di preghiere e di una benedizione, mi disse che se fosse venuto tra le 11:45 e mezzogiorno, avrebbe potuto brevemente incontrarlo. Andai subito a comunicare la cosa ai due fratelli, che si mostrarono molto contenti e pieni di gratitudine nei miei confronti. Li accompagnai nella stanza di Padre Amorth e ve li lasciai, dicendo loro di tornare nel mio ufficio dopo l’incontro. Puntualmente qualche minuto dopo mezzogiorno essi tornarono da me. Mi ringraziarono ancora, ci salutammo ed essi risalirono in macchina per riprendere la strada del ritorno. Il giovane mi sembrò molto tranquillo e sereno e ancora molto timido.
La sera, a refettorio, Padre Amorth mi si avvicinò e mi disse: “Compagnino! (lui usa spesso questo appellativo verso i suoi confratelli) Ma sai chi mi hai portato questa mattina?”.
“Si riferisce a quel giovane accompagnato dal fratello? Perché?”.
“Quello è un vero caso di possessione diabolica!”.
Rimasi sbalordito. Come?! Quel giovane così perbene, così timido …
La mia meraviglia era soprattutto al fatto che Padre Amorth, nei migliaia di casi trattati, ha sempre affermato di essersi incontrato raramente con quelli di vera  possessione diabolica.
“Ma come ha fatto ad accorgersene in così poco tempo?”.
“L’ho capito subito dalla reazione avuta non appena ho cominciato a pregare”.
“E cosa ha fatto poi lei?”.
“Ho subito interrotto l’esorcismo e ho fatto rientrare in sé il giovane, che era già andato in trance. E gli ho detto che il suo caso era molto serio e che lui aveva bisogno di molte “sedute”, che potevano andare avanti anche per anni e che quindi io non potevo fare nulla per lui e che si cercasse un esorcista nella sua Diocesi”.
Dopo diversi mesi quel giovane mi richiamò, supplicandomi di fissargli un incontro con Padre Amorth, al quale andai subito a riferire la cosa. “Digli che mi telefoni direttamente” mi disse. Così feci e poi non lo risentii più. Seppi in seguito, e precisamente nel terzo incontro di quel giovane con l’esorcista, che questi gli aveva fissato un appuntamento per un esorcismo e che quest’ultimo si svolse in modo piuttosto drammatico, con urla, bestemmie e rotolamenti sul pavimento e che, in precisione di ciò, Padre Amorth aveva convocato degli assistenti che lo aiutassero a tener fermo l’esorcizzato. Non ne seppi molto più. Senonché ancora di fissargli un incontro con Padre Amorth, dicendomi al contempo di trovarsi molto angosciato per la morte del babbo avvenuta tre mesi prima per un tumore assolutamente asintomatico e che quando fu diagnosticato era ormai nella fase terminale. Non seppi dirgli di no e lo raccomandai a Don Amorth, che si dimostrò disponibile e fissò l’appuntamento.
Questa volta – mi dissi – voglio partecipare anch’io all’esorcismo. Volevo rendermi conto di persona e osservare attentamente sia il giovane esorcizzando sia l’esorcista, per convincermi del tutto della soprannaturalità di certe manifestazioni e della potenza delle preghiere di liberazione della Chiesa.
Venuto il giorno dell’appuntamento, quel giovane, accompagnato dal fratello e dalla mamma, venne prima nel mio ufficio. Lo trovai molto appesantito rispetto alla prima volta che lo vidi e notai nei suoi occhi una certa inquietudine. Era molto diverso da come lo ricordavo, anche se sempre piuttosto timido. Parlammo un po’ della situazione familiare e della morte del babbo, che li aveva lasciati tutti molto scossi e ancora molto sofferenti. Mi chiesero anche questa volta se potevo far celebrare tre corsi di Messe gregoriane e mi lasciarono la corrispondente offerta di 1.050 Euro. Allora per l’esorcismo, l’accompagnai nella stanza adibita allo scopo e lì attendemmo l’arrivo di Padre Amorth, che salutò tutti affabilmente e anche allegramente. Vennero altre persone chiamate da D. Amorth per l’aiuto necessario in casi come quello. Il giovane fu fatto sedere sulla solita poltrona-sdraiato; Padre Amorth era alla sua sinistra e alla sua destra c’era il fratello. Davanti c’era un robusto signore con il compito di tenere fermo l’esorcizzando e c’erano pronte altre due persone allo stesso scopo. Io mi sedetti presso il tavolo al centro della stanza, onde essere comodo a prendere degli appunti.
Padre Amorth inizia aspergendo con l’acqua benedetta tutti i presenti e invitandoli a recitare insieme delle preghiere. Poi mette in mano al giovane esorcizzando un crocifisso che lui afferra senza mostrare alcuna ripulsa.
L’esorcista indossa la stola viola, ponendone un lembo sulle spalle del giovane e iniziando a recitare le formule di esorcismo tenendogli una mano sul capo. La prima preghiera è a S. Michele Arcangelo. Roberto (chiamerò così d’ora in poi quel giovane) comincia ad agitare la testa e volgendo poi la faccia verso l’esorcista con due occhi diventati improvvisamente terribili e pieni di odio, ansima e ringhia.
“Chi sei?” gli domanda imperiosamente Padre Amorth.
E Roberto, con una voce non sua e impressionante, gli dice:”il mio nome è Mefisto” (così ho capito io).
“Sei solo?”.
“Siamo moltissimi e sono tutti a mia disposizione”.
“Quanti siete? Dimmi il numero!”.
“Tantissimi”.
“Quanti? Voglio sapere il numero!”.
Roberto mugugna con uno stranissimo suono gutturale.
Padre Amorth insiste: “Quanti siete? Asino! Non sai contare?”.
Lui ripete di chiamarsi Mefisto, ma non risponde all’esorcista, limitandosi a fare versi, smorfie e mugugni. Poi con voce più alterata (Non sua) e piena di odio dice all’esorcista, fissandolo con occhi terribili: “ Non mi toccare!”. E Padre Amorth imperiosamente: “Recede! Recede! In nomine Patris … intercedente beata Dei Genitrice Virgine Maria …”.
C’è un momento di calma, ma poi improvvisamente Roberto si rivolge all’esorcista, insultandolo con parole volgari, oscene e coprolaliche: “Pezzo di m … che c … vuoi? Sei un pezzo di m … bastardo! Fatti i c … tuoi!”. E lo ripete più volte, ringhiando mentre l’esorcista gli domanda se ha agito durante messe nere, riti satanici, macumba, woodoo e altro.
Roberto reagisce con parolacce e ringhia: “Come fai a sapere queste cose? Figlio di p …!”.
L’esorcista insiste nell’elencare tutte le possibili cause della possessione, chiedendo quale di quelle ne fosse all’origine. Roberto alterna momenti di calma ad altri di agitazione, ma sempre con la testa rivolta all’esorcista e con gli occhi torvi e pieni di odio, con scariche di insulti volgari: “Come c … conosci la lingua latina? Maledetto str …, fai schifo! Str … maledetto!”.
Roberto comincia a fare versacci con la bocca e a ripetere a raffica: “Vaffanc … !”.
Padre Amorth invoca Maria Santissima che gli schiacci il capo. Roberto continua a insultare. “Esci!” gli intima l’esorcista con tono perentorio. Roberto a questo punto si scuote ed è preso da un forte tremore a questo punto si scuote tutto ed è preso da un forte tremore. Il fratello e un altro assistente cercano di tenerlo fermo.
“Chiudi la bocca!” dice l’esorcista. Tu emetti una energia molto fastidiosa per me.
Padre Amorth continua la formula di esorcismo in latino.
Credo che usi il vecchio rituale, perché lo ritiene più adatto, più efficace e più temuto dal demonio.
“Taci, pezzo di m …! Obbedisci!”.
“Sanctus, Sanctus, Sancutus …”.
“Maledictus””.
Roberto si scuote in tutto il corpo. E Padre Amorth: “Recede! In nomine Jesu … Durum est tibi recalcitare …”.
Roberto fa le corna e dice delle oscenità verso l’esorcista, che gli intima: “Stai zitto!”. E ripete per te volte una pittoresca espressione di San Francesco rivolta al diavolo, come scritto nei Fioretti.
“Come osi schifoso?”.
“Recede!”.
“Gran figlio di p … ! Tu emani una energia molto fastidiosa per me! Voglio rimanere qui e ti devo uccidere.
Non devi più vivere, perché tu dai fastidio a tutto l’inferno! Devi morire! Ci dai troppo fastidio! Questo giovane deve morire!”.
E qui Roberto comincia a bestemmiare in continuazione. L’esorcista insiste con la preghiera, mentre Roberto non fa che bestemmiare con voce alterata e cattiva e scuotendosi tutto.
“Toglimi le mani dalla testa e dagli occhi! Lo Spirito Santo non lo devi nominare!”.
Padre Amorth torna a domandare: “Qual è il tuo nome?”.
“Mefistofele” (mi sembra di aver capito).
“Ti ha fissato Dio il giorno in cui devi uscire?”.
“Ci siamo già conosciuti io e te!”.
“Vi ho sempre vinto tutti. Vattene, che non vali una cicca!”.
Roberto tira fuori la lingua, puntandola contro l’esorcista con un fare tra quello di un bambino che fa le linguacce e quello di chi sfida e di chi provoca una bestia feroce chiusa in gabbia. Un ultimo scuotimento e tremolio di tutto il corpo e poi Roberto rimane immobile in silenzio a testa in giù. Padre Amorth lo asperge con l’acqua benedetta. “Via!” gli dice, ma lui rimane immobile. Allora recita l’Ave Maria con tutti i presenti e poi gli dà dei colpetti in fronte con il palmo della mano e gli dice:”Sveglia!”.
Roberto rimane ancora qualche momento a testa in giù e poi si guarda attorno e il suo volto tutto arrossato assume un’espressione tranquilla, anche se di persona stanca come dopo una corsa o un forte stress emotivo. Ci alziamo tutti e ognuno esce dalla stanza, mentre Padre Amorth, in assenza del suo solito aiutante, si preoccupa di chiudere a chiave le due porte di ingresso, tranquillo e sereno come di chi abbia fatto la cosa più normale di questo mondo e saluta affabilmente Roberto, la di lui mamma e il fratello.
Io mi avvicino a questi ultimi e li invito a pranzo nel refettorio della comunità, essendosi ormai fatto quasi mezzogiorno e mezzo. Essi accettano e con molta tranquillità pranzano insieme alla comunità paolina. Roberto non mostra molto appetito, e infatti mangia poco. Dopo pranzo li saluto, promettendo che mi sarei interessato a cercare un esorcista per Roberto, che mi dice che mi avrebbe telefonato entro una settimana per sapere se lo avevo trovato. E a riguardo devo dire che molto casualmente ne troverai uno proprio in quella settimana e proprio nella stessa regione e località di Roberto, che puntualmente esorcista, che si mostrò subito disponibile messo sull’avviso che si trattava di un caso di vera possessione diabolica e che quindi si tenesse pronto a tutto e predisponesse quanto necessario per un esorcismo nella massima sicurezza.
Mentre scrivo non so come siano andate le cose, perché non ho ancora ricevuto telefonate né da Roberto, né dall’esorcista. Comunque quel che mi preme dire, soprattutto in risposta a quanti minimizzano certi fatti o li riducono a semplici fenomeni psichici o psichiatrici, che bisogna essere proprio ciechi e sordi per negare l’evidenza della preternaturalità di tali manifestazioni.

Dal libro: E’ lui a far paura al demonio – P. Amorth


sabato 21 settembre 2019

L’OSSESSA DI PIACENZA (QUINTA PARTE - FINE)


L’OSSESSA DI PIACENZA
Intervista col diavolo
Cronaca di Alberto Vecchi
(QUINTA PARTE)

IL CORPUS DOMINI

Durante il quinto esorcismo, lo spirito si ribellò, come al solito, al sacerdote:”Non esco!”.
“Perché?”.
“Per farti arrabbiare”.
“Ma io sono più potente di te!”.
“E perché sei più potente” rispose con dolore indicibile lo spirito “Tu mi cacci?”.
“Appunto perché sono il più potente oggi ti voglio cacciare”.
“Oggi non esco”.
“Il motivo?”.
“Perché oggi hai ottenuto anche troppo”.
“In nome di Dio, in nome di quell’Ostia Santa che questa mattina è passata alta e solenne in mezzo a noi (era il giorno del Corpus Domini), che è scesa nell’anima di questa creatura, esci da questo corpo”.
“Non vado!” gridò lo spirito vibrante di collera.
“Ma Cristo, il nostro Dio, non deve cedere di fronte a te, spirito immondo: esci da questo corpo!”.
“Non vado!”. Lo spirito urlava a squarciagola, sempre più inferocito. “Ti potrai dire contento se riuscirai a farmi uscire il 23”.
“Devi andar via oggi, festa del Corpus domini”.
“Oggi non vado”. E d’un colpo si avventò contro il sacerdote e gli strappò la stola, che dilaniò ferocemente, voluttuosamente, come era solito fare. Da notarsi però che, nonostante sempre si udisse chiaramente da tutti il crac della stoffa lacerata e se vedessero i brandelli stracciati dai denti forti dell’ossessa, la stola, sottratta alle furie diaboliche, si mostrava sempre intatta, come se nessuno l’avesse toccata.
“Con qual diritto stai in questo corpo? Questa creatura fu fatta un giorno da Dio a sua immagine e somiglianza; per lei Egli si è incarnato, per lei ha patito ed è morto in croce. Quindi essa è sua”.
L’esorcista si interruppe, attendendo invano una risposta. Poi riprese: “Questa creatura è vero tempio dello Spirito Santo, è vera casa di Dio, e nella casa di Dio non deve starci altri che Dio. Fuori, spirito immondo!”.
Ma alle parole del sacerdote seguiva solo il silenzio.
Lo spirito non rispondeva. “Si avvicina l’ora della benedizione. Senti: le campane suonano, l’organo accompagna il canto del Tantum Ergo, il popolo è inginocchiato davanti al Santissimo esposto. In quest’ora tutte le fronti si chinano e tu pure devi inchinarti e uscire”.
Anche questa volta nessuna risposta.
Dimmi, dimmi in nome di Dio, in nome di Gesù Cristo esposto, non ti dà fastidio questo giorno, il giorno del Corpus Domini?
Finalmente risuonò una risposta, ma era lugubre:”Sì”.
“Ebbene, vattene!”.
“Ero nei deserti lontani, mi hanno chiamato, mi hanno scongiurato, sono venuto, non posso uscire”.
La sua voce pareva un gemito.
“Ma Iddio, il nostro Dio” continuò il sacerdote con sempre maggiore slancio “è grande, è onnipotente. Davanti a questo Dio il Faraone capitola, Paolo cade a terra, e tu pure devi cedere e darti per vinto”.
Lo spirito gli rivolse un’occhiata piena di un’angoscia indescrivibile e non rispose.
“Satana!” esclamò il padre, discernendo nel suono delle campane il momento della benedizione Eucaristica.
“Satana, ecco il momento solenne in cui Cristo sotto le specie del pane viene innalzato perché voglia benedire il suo popolo. In questo momento, con tutta l’autorità, con tutto l’impero che mi viene da Dio, ripeto a te le parole del Salvatore divino: “Exi a bea!”. Satana, rendi onore a Dio Padre, dà luogo a Gesù Cristo, dà luogo allo Spirito Santo, che per mezzo dell’apostolo Pietro un giorno ti umiliò in Simon mago: “Exi a bea!”.
Il comando cadde in un silenzio tombale, che sinistramente contrastava col gioioso suono delle campane che, fuori, inondava tutta la campagna. Lo spirito taceva, affranto; ma pareva incatenato a quel corpo.
Durante l’ottavo esorcismo c’era stato questo colloquio tra il padre e lo spirito:
“Quando uscirai?”.
“Il 23 giugno 1920?”.
“E perché non prima?”.
“E’ destinato così”.
“Quando mi hanno scongiurato, hanno fissato che nessuno otterrà la guarigione se non faranno gli esorcismi prima del 23”.
“Tutte imposture” gridò indignato l’esorcista. E infatti, che avrebbe dovuto credere alle parole del padre della menzogna? “Iddio è superiore agli stregoni”.
“Se Dio non fosse superiore agli stregoni” rispose lo spirito in tono solenne e dilatando gli occhi per il terrore “io non uscirei mai più”.
LO STRANO COLLOQUIO

Più gli esorcismi si avviavano verso la fine, più il tormento dello spirito appariva evidente. Forse avrebbe desiderato partire, ma era incatenato. Del resto sfogava la sua rabbia, tormentando a sua volta il povero corpo dell’ossessa, che alle volte era sfigurato in modo da non essere più riconoscibile agli stessi presenti.
“Quando uscirà la palla?” chiese P. Pier Paolo all’undicesimo esorcismo, avvenuto il giorno 18 giugno.
“Il 23 giugno”.
“A che ora?”.
“Alle cinque”.
Mi hai detto che uscendo da questo corpo me ne avresti avvertito chiamando la Gilda per tre volte. E’ vero?”.
“Sì”.
“Ebbene questo nome non lo voglio”.
“Perché?”.
“Perché la Gilda non ha nulla a che fare con te, spirito immondo”.
“Allora ti darò un altro segno”.
“Che segno?”.
“Te lo dirò più tardi”.
“Dimmelo ora!”.
“Mi parlerai?”.
“Sì”.
“E come parlerai, se dopo questo esorcismo, non potrai dire nulla?”. Lo spirito infatti aveva da tempo avvertito che dopo l’undicesimo esorcismo le sue forze si sarebbero talmente indebolite, da togliergli persino l’uso della voce. “Ho voluto dire che non ti risponderò più; ma quando partirò, farò come faccio adesso a parlarti”.
A questo punto il sacerdote rinnovò l’esorcismo, poi intimò: “Alzati e rigetta!”.
Subito l’ossessa fu sul catino.
“Rigetta!
“Non mi resta più nulla da rigettare.
“In nome di Dio, fa rigettare a questa creatura, senza sforzi inutili, tutto ciò che ha preso per malefizio”.
Questa volta l’ossessa rigettò una grande quantità di liquido.
“Che cosa abbiamo ottenuto?” chiese il padre.
“L’ho già detto”.
“Non hai detto niente. Che cosa abbiamo ottenuto?”.
“Te l’ho già detto. Non essere troppo seccante”.
Il padre si ricordò che Isabò doveva aver perduto, come questi si era espresso, l’ultima sua forza.
“Voglio sapere dove è andata l’ultima tua forza”.
“In N.N.” (quello che aveva invocato lo spirito ripetutamente, come anche lo stesso padre aveva udito personalmente).
“E’ la verità?”.
“Sì”.
“Starai a questo comando?”.
“Sì, sì, sì” e un’altra risata fredda, sarcastica risuonò sinistramente nella sala. Già calava la notte. L’esorcismo era iniziato sei ore prima. Sei ore di spasimo per il corpo della povera signora. Il sacerdote pensò dunque di chiudere l’esorcismo.
“A te immondo spirito …”. Lo spirito prontamente interruppe: “ … comando di non far male, di non far paura né a te, né ad alcuno dei presenti … Devi dire” soggiunse con forza dopo una pausa “di non far bene, Perché per me il male è un bene”.
Al successivo appuntamento del 21 giugno, alle ore 15 come al solito, i convenuti ebbero subito una sorpresa.
Durante le preghiere preparatorie, l’ossessa non si stirava, non sbadigliava più quelle occhiate sinistre, che suscitavano già, specie le prime volte, tanta impressione; ma, seduta, con le mani strette ai bracciolo della sedia, col mento appoggiato sul petto se ne stava tetra, imbronciata, quasi fosse l’incarnazione del rimorso.
Alle prime parole dell’esorcismo si alzò lentamente come per ubbidire a un interiore comando, e, sempre lentamente, si sdraiò sul materasso disteso ai suoi piedi; ciò fatto, si irrigidì e rimanendo così immobile, chiuse gli occhi.
I circostanti guardavano con terrore quel corpo, giacente supino come in una bara, e si attendevano da un momento all’altro un balzo felino, una di quelle grida improvvise che agghiacciano il sangue  e che solo una forza non umana è capace di emettere, L’esorcista diede un’occhiata alla croce posata sul pinnacolo altare, si assicurò che il secchiello dell’acqua santa fosse al posto, a portata di mano e, finito lo scongiuro, aprì l’interrogatorio:
“T’impongo di star fermo e di rispondere solo alle mie domande. Hai capito?”.
Nessuna risposta.
“Non puoi o non vuoi rispondere?”.
Silenzio assoluto. L’esorcista era un poco imbarazzato. Non sapeva come costringere alla risposta un muto.
Finalmente ebbe un’idea. “Se non puoi rispondere” disse “alza un dito, e se non vuoi, alzane due”.
A questa ingiunzione, in un silenzio assoluto, si vide l’ossessa alzare lentamente, con gran fatica, un dito. Non poteva rispondere.
E’ chiaro che un colloquio nel quale uno dei due interlocutori parla per mezzo di segni assai scarni perde ogni interesse immediato per chi ne legge il resoconto. Ma coloro che videro coi propri occhi la scena di quel giorno, non dimenticheranno mai l’impressione provata, osservando l’ossessa, già tanto violenta e ribelle, giacere stanca, umiliata, sconfitta, col volto atteggiato a un’impressione di abbattimento, di dolore profondo.
Così si avviò un colloquio strano, incredibile. Il frate esprimeva delle domande e l’ossessa rispondeva alzando uno o due dita, a seconda della risposta. Finché le domande cedettero all’ingiunzione: “Alzati e rigetta!”.
L’ossessa, sempre più tetra e imbronciata, si alzò lentamente, lentamente andò in cerca del catino, e tentò di ubbidire. Tutto inutile. Nonostante le reiterate ingiunzioni e i reiterati tentativi, non riusciva a rigettare. Finalmente il Padre ricorse al trisagio. Dopo la recita del Sanctus, l’ossessa finalmente ubbidì e rigetto qualcosa.
Poi riprese lo strano colloquio avviato a base di domande da una parte e di gesti dall’altra. Finché il Padre si stizzì: “T’impongo di uscire da questo corpo e di andare nel centro del Sahara o nel (gli indica un altro luogo, che, per motivi ecumenici, ho preferito non trascrivere  n.d.r. oppure nei cavalli di Piazza Cavalli. Scegli. Dove vuoi andare?”.
L’ingiunzione è apparentemente strana. Imporre a uno spirito delle destinazioni così precise, manco fosse un pacco da spedire! Eppure su questo punto non c’è possibilità di dubbio: troppe sono le fonti che parlano di questi demoni “dell’aria”. Isabò stesso l’aveva detto più volte: “Vengo dai deserti lontani”.
Alla domanda del sacerdote, lo spirito parve scuotersi lentamente dal suo letargo; poi con voce stanca, lamentevole, mormorò come in sogno: “Nel deserto”.
“Nel deserto, nel centro del Sahara caccio anche i tuoi compagni. Hai capito?”.
Sempre con la stessa voce stanca e lamentevole, lo spirito risponde: “Vado io solo”.
Dunque parli quando vuoi.
Ma lo spirito non parlò più. Rispose faticosamente a qualche domanda, alzando le braccia o le dita, finché, assicurato l’esorcista che non avrebbe fatto male a nessuno, la mano ricadde pesantemente lungo il corpo e non si mosse più. Quella volta l’esorcismo era durato meno di due ore.

LA LIBERAZIONE

Finalmente venne il gran giorno, il 23 giugno. Se lo spirito aveva detto la verità, sarebbe partito durante l’esorcismo di quel giorno. Il dott. Lupi, che ancora si sforzava di osservare i casi con la distaccata attenzione dello scienziato, era agitato dalla più viva curiosità. La signora e i familiari avevano trascorso un giorno e mezzo in attesa quasi frenetica.
All’appuntamento furono puntuali. Il dott. Lupi, nervoso più del solito, batteva con frequenza per terra il suo bastoncino. Tutti insieme pregarono con molto fervore in Chiesa e poi passarono alla sala degli esorcismi.
Come l’ultima volta, alle preghiere preparatorie l’ossessa non si mosse, non si scosse, ma pallida, disfatta, stava a capo chino sulla sua poltrona esattamente come un condannato starebbe sulla sedia elettrica. Alle prime parole dell’esorcismo si alzò con fatica, con fatica si distese sul materasso, e a occhi chiusi vi si irrigidì. Tutto come l’ultima volta. Il dott. Lupi osservava con gli occhi quasi fuori dalla testa, per lo sforzo di attenzione.
E iniziò l’ultimo drammatico colloquio, intervallato da misteriosi momenti di silenzio, che scarni movimenti delle braccia a malapena coprivano.
“In nome di Dio”. Cominciò l’esorcista “t’impongo di ubbidirmi in tutto ciò che ti comando. Hai capito?”.
Silenzio.
“Te lo impongo in nome di Dio, della Madonna. Ancora silenzio. “Se hai capito alza un braccio, altrimenti due”.
Lentamente con grande fatica, l’ossessa alzò un braccio. Lo spirito aveva capito.
E così fu ripetuta la promessa che in quel giorno sarebbe partito. Ma c’era, nei movimenti dell’ossessa, qualche momento di esitazione.
Seppero che, nel giorno trascorso, la Gilda era stata tormentata, ma che attualmente era libera. Seppero anche che gli altri familiari potevano ormai ritenersi liberi da ogni incubo.
“Ma i tuoi compagni verranno con te?” domandò l’esorcista.
Lo spirito non rispose.
“Se verranno, alza un braccio; se non verranno, alzali ambedue”.
L’ossessa alzò due braccia. Isabò solo partiva.
“Guarda che te li mando dietro tutti. Hai capito? Se verranno, alza un braccio, se no due”.
L’ossessa alzò le due braccia e le tenne alzate a lungo, con ostentazione. E anzi, a una nuova interrogazione del sacerdote, lentamente le mosse, sempre con ostentazione, in segno di diniego.
“L’ultima tua forza, quella che ti permetteva di fare qualsiasi male, è entrata veramente in N. N.?”.
V’era entrata. Isabò pareva sottolineare l’indipendenza dei suoi compagni – o, com’egli chiamava, le sue forze – rispetto alla nuova sua posizione di cattività. La forza che s’era impossessata di N. N. non ne sarebbe uscita, e nulla lasciava presumere che ne sarebbe uscita presto. I suoi compagni lo avrebbero degnamente sostituito nella seminagione del male.
Sdegnato, il Padre comandò: “Alzati e rigetta!”.
L’ossessa, quasi trascinandosi, si alzò e, a capo chino, con gli occhi a terra, andò a inginocchiarsi presso al catino. Si chinò e prese sforzarsi in terribili conati che le sconquassavano il corpo. Il sacerdote ingiungeva, ed essa sempre più si sforzava di ubbidire. Era una scena penosa. La povera signora aveva un aspetto cadaverico. Era disfatta.
“Rigetta!”.
L’ossessa, in uno spasimo estremo, si sforzò. Era inginocchiata, e teneva i gomiti appoggiati a due sedie poste ai lati. Ma da quella gola martoriata non uscì ancor nulla.
“Recitiamo il Sanctus” disse il Padre.
Allora soltanto l’ossessa riuscì a rigettare qualcosa, ma era poco. E la testa le si abbassava sempre più, quasi la vita ormai stesse per abbandonarla. Le sorressero la testa, perché non cadesse in avanti. “Sono le quattro e trentacinque minuti” disse con voce malferma. “Con tutta l’autorità che mi viene da Dio, io ti comando, spirito immondo, di uscire immediatamente da questo corpo. Se esci subito, ti confino nel deserto, nel centro del Sahara; se non esci subito, ti mando all’inferno”.
Queste parole riempirono la sala di un’atmosfera di solennità. Ma confinava col senso di epilogo di tragedia. I frati, il dottore, gli assistenti, le signorine erano pallidissimi. Si sarebbe udito il battito dei cuori. Neppure il fiato di respiro interrompeva la solennità del momento. Gli occhi di tutti erano fissi sull’ossessa, la quale, all’imposizione del sacerdote, mosse lentamente all’indietro il cuoio capelluto, e parve che un immenso parruccone da istrione le scivolasse via. Una grossa parrucca di lana caprina, che fece apparire ridicolo il volto ed enormemente dilatati gli occhi. Fissò gli occhi lacrimosi in faccia all’esorcista, che le stava seduto di fronte. Un atteggiamento da ebete. I muscoli del volto erano tutti rilassati, e il labro inferiore penzolava in giù. Nulla di umano era rimasto in lei. Questi occhi sbarrati e lucidi, quella bocca aperta, quel pallore cadaverico, quel parruccone malamente appoggiato sulla nuca: i presenti non poterono trattenere le lacrime.
Ma poi si udì una voce accorata, lamentevole: “Vaaado!”.
La testa dell’ossessa si abbatté di schianto sul catino, ed essa rigettò una gran quantità di roba.
“Và, và!” urlò il sacerdote improvvisamente pazzo di gioia.
Nel tempo stesso l’ossessa non sentì più il peso terribile della stola, né l’imposizione della mano. Con voce fresca, di donna giovane, esclamò: “Sono guarita!” e si guardò come esterrefatta d’intorno con gli occhi sbarrati, con lo sguardo che girava senza posa sul volto degli amici; ,a la sua bocca era atteggiata al sorriso. Il sorriso della liberazione.
“E la palla di cui diceva Isabò?” chiese P. Pier Paolo.
“La palla sarà nel catino” rispose il dottore, che si alzò in fretta, corse al catino e ficcò la canna nella roba rigettata. Meraviglia! La roba rigettata poté essere tutta sollevata dal bastone del dottore come fosse panno. E infatti si spiegò agli occhi degli stupefatti astanti come un velo bellissimo e amplissimo, tutto screziato dei colori dell’iride.
In fondo al catino, completamente all’asciutto, apparve la palla famosa tante volte descritta dallo spirito. Era una palla di salame, della grossezza di una piccola noce, con sette cornetti. Lo spirito aveva mantenuto la promessa.
La signora, in preda a una commozione senza limiti, piangeva. Ma era un pianto che, finalmente, le faceva bene. Anche le signorine avevano il fazzoletto agli occhi.
Il dottore, chino a indagare dentro il catino, e i frati, che con le mani giunte guardavano ora la signora e ora il Crocifisso, non sapevano che cosa dire. Ma ormai pregava per tutti la signora che, corsa a inginocchiarsi davanti all’altare, offriva all’altissimo i suoi convulsi singhiozzi.
Dal libro: E’ lui a far paura al demonio – (FINE)

sabato 14 settembre 2019

L’OSSESSA DI PIACENZA (QUARTA PARTE)


L’OSSESSA DI PIACENZA
Intervista col diavolo
Cronaca di Alberto Vecchi
(QUARTA PARTE)

GLI STREGONI

Al sesto esorcismo, avvenuto il 6 giugno, l’esorcista chiese all’ossessa:
“Per quanto tempo sei stato confinato in questo corpo?”.
“Per tutta la vita”. Ed era sua intenzione di farla morire presto. Alludeva al mandante, un Don Rodrigo da strapazzo, un compagnone violentemente innamorato della signora, ancora ben noto ai sopravvissuti.
“In che giorno e in che mese avrebbe dovuto morire?”.
“Qui di novembre”.
“All’ottavo esorcismo, avvenuto l’11 giugno, fu chiesto:
“Esistono veramente gli stregoni?”.
“Sì”.
“Che cosa fanno?”.
“Sono persone capaci di far del male agli altri”.
“Traggono potere dal demonio?”.
“Sì”.
“Hanno comunicazione diretta col demonio?”.
“Sì”.
“Che cosa è necessario per essere stregoni?”.
Con molta importanza, lo spirito, facendo cadere le parole dall’alto, rispose:”Tanti libri, tante bacchette, tante cose …”.
“A che cosa servono?”.
“Sono tutti comando”.
“Uno stregone può essere buono p è sempre cattivo?”.
“Anche buono”.
“Buono in che senso?”.
“Buono a vista di tutti; ma, interiormente, no”. Terribile risposta!
“Gli stregoni hanno venduto l’anima al demonio?”.
“Quasi”.
“Quanti stregoni ci sono nel piacentino?”.
“Sette”.
“Dove si trovano”.
“Non lo posso sapere”.
“Dimmelo”.
“Non posso”.
“Mi hai pur detto i nomi dei primi tre”. Si trattava dei tre stregoni pagati dal don Rodrigo perché congiurassero contro la signora.
“Ho detto il nome di quelli che hanno fatto il male. Gli altri stanno a casa sua (sic)”. E non ne uscì di più.
Questi colloqui narrati così alla svelta debbono in realtà essere immaginati come continuamente spezzati in luoghi, spossanti alterchi, in continui tentativi di tergiversazione e di inganno nelle risposte dello spirito, in frequenti scongiuri dell’esorcista, il che trascinava il colloquio per ore e ore.
“Quanti ossessi ci sono oggi nel piacentino?”, chiese poi l’esorcista.
“Più di trenta”.
“Come spiegano i medici queste ossessioni?”.
“Niente in tutto”.
“Dì la verità”.
“Non capiscono niente con la loro scienza. Le spiegano come forme di pazzia”.
“Nei manicomi ce ne sono molti di ossessi?”.
“Tanti”.
“E nel ,manicomio di Piacenza?”.
“Ce ne sono due”.
“Dove?”.
“Nel reparto donne”.
“Come si chiamano”.
“Non te lo posso dire”.
“Ti impongo di dirmelo”.
“ Non insistere, perché non posso. Ti darei dei nomi che non esistono”.
Dopo una lunga serie di botte e risposte, i P. Pier Paolo dovette desistere anche su questo punto. Ma gli premeva sapere un’altra cosa.
“Che cosa deve fare questo corpo per non essere più invaso?”.
“Deve darsi a quell’uomo”.
“Taci, spirito immondo, e rispondi solo alla mia domanda”.
“Deve abbracciare quell’uomo”.
Il suicidio respinto innamorato poteva contento di tanto alleato.

ESLENDER

Gli esorcismi si susseguivano inesorabilmente. Lo spirito era pur sempre altezzoso, ma non così sicuro di sé come le prime volte. Nei momenti più critici l’esorcista ricorreva all’invocazione del Trisagio e brandiva la teca del santo legno della croce. Alla vista della Croce, l’ossessa indietreggiava, inorridita, e volgeva il capo indietro, emettendo un ruggito sordo e selvaggio, mentre sul volto le si dipingeva un ghigno spaventoso. Gli occhi avevano un lampeggiare sinistro. Ed essa, improvvisamente, si volgeva e cercava, ma inutilmente, di lanciarsi contro il legno con rabbia, con odio, con desiderio violento di abbatterla e di distruggerla. Ma il desiderio d’odio dello spirito cozzava sempre come contro delle barriere insuperabili.
“Che dobbiamo fare per farti uscire più presto?” aveva chiesto P. Pier Paolo alla fine dell’ottavo esorcismo.
Nel silenzio profondo della sala, lo spirito, con calma, con solennità, aveva risposto: “Pregare”.
E infatti con la preghiera erano state combattute le forme del male. Pare che alcuni compagni dello spirito – forze, come egli le chiamava – fossero già stati costretti ad andarsene. Tra questi, molto potente, Eslender. (I nomi dei demoni erano stati attribuiti loro dagli stregoni).
Al nono esorcismo il Padre chiese : “Dov’è andato Eslender?”.
“Nel corpo di Gilda” rispose. (Si trattava della sorella dell’ossessa).
“Perché?”.
“Perché non l’avevi destinato”.
“Tu menti: io l’avevo destinato”.
“Allora non sei stato capace: io sono più forte di te”
Affermò l’ossessa.
“Non è vero”.
“Ma io sono più svelto a pensare di te. Quando stavi per confidarlo, io l’avevo già mandato”.
“E’ andato solo o con dei compagni?”.
“Solo”.
“T’impongo di revocare l’ordine immediatamente”.
“Ma io” disse lo spirito scuotendo la testa e agitandosi tutto “io non ci penso più. Ora ci sta bene. Sta a lui uscire. Non sono mica io che debbo comandarlo”.
“In nome di Dio ti comando di far uscire Eslender immediatamente. E’ uscito?”.
“No”.
Il sacerdote afferrò la Croce, lo sollevò il alto contro l’ossessa e gridò: “Per questa Croce, per quel Dio che un giorno su questa Croce diede la vita, tutto se stesso, per strapparci dal tuo potere, fa uscire immediatamente Elender. E’ uscito?”.
Questa volta lo spirito ruggì a denti stretti: “Sì, è uscito, ma è ancora in casa”.
“Che fa in quella casa?”.
“Parla lingue straniere smania, urla. Hanno chiamato quel sacco di carbone di don Pallarini (l’arciprete di S, Giorgio Piacentino, parroco della Gilda)”.
“E l’arciprete che fa?”.
“Leggete l’ufficio”.
“Ma Eslender è ancora in casa?”.
“Don Pallaroni l’ha confinato in un cane, ma non ne è stato capace, perché non ha detto il nome del cane. Ha ben detto che benedirà quella casa, ma forse non sarà capace, perché non sa che cosa deve fare”.
Mentre Isabò insultava l’arciprete, da S. Giorgio, Eslender – come più tardi disse la madre dell’ossessa – insultava in frataccio di S. Maria di Campagna.
In effetti, nella casa di S. Giorgio Piacentino, accadevano le più strane cose. La Gilda frequentemente faceva dei gran discorsi in tedesco, lingua da lei mai conosciuta.
Poi la mania dei discorsi in tedesco si trasferiva improvvisamente nel fratello, e allora ricominciava lui. Di notte, impetuosi soffi improvvisamente spegnevano le lampade a petrolio. Le porte, le finestre si spalancavano e sbattevano. Il fratello non riusciva a dormire per il gran rumore di catene e di ferri vecchi che lo intontiva. Una volta invitò il capolega del paese, un giovanottone grande e grosso che rideva di queste storie, a dormire nella sua camera. Il capolega accettò. Anche quella notte vi fu una confusione maledetta.
Il fratello scappò al piano di sopra, e il capolega, forse perché non pratico della casa, non trovò di meglio che saltar giù dalla finestra nella strada. Inoltre, la sorella si mostrava più arrendevole a tentazioni lascive. Si vestiva in modo molto procace ed er tutta un atteggiamento di voluttà.
Osservata a distanza, la cosa poteva sembrare curiosa, ma quelli che si trovarono in mezzo probabilmente ci si divertivano un poco meno. Come quando l’esorcista si sentì dire da Isabò: “Tu hai paura di vedermi”.
“E chi non dovrebbe aver paura?” Rispose.
“Questa notte a mezzanotte ti comparirò vicino al letto”.
“Non voglio vedere la tua brutta faccia”.
“Allora mi mostrerò dall’altra parte” sghignazzò lo spirito col suo vocione baritonale, mentre gli astanti rabbrividivano.
Per tutta la sua vita, dall’ora in poi, il P. Pier Paolo dormì con la luce accesa in camera. Quella sghignazzata gli si era fermata nel sangue come qualcosa di freddamente metallico.

NONO ESORCISMO FECE VACILLARE SATANA

E’ interessante la costatazione, a chi si sia interessato di questi casi, di una personalità spiccatissima in ognuno di questi spiriti. Ognuno ha delle caratteristiche inconfondibilmente proprie. Nel nostro caso, Isabò si distingueva per l’orgoglio e la follia di negazione, mentre Eslender assomigliava al diavolo furbo della favola che consiglia mille pazzie e fa buttare giù dalla finestra acqua santa e libri da Messa: ciò che infatti faceva fare alla sorella dell’ossessa.
Durante il nono esorcismo, avvenuto il 14 giugno, il sacerdote chiese: “Dove sono i tuoi compagni?”.
“Non lo so” rispose lo spirito.
“In questa stanza ce ne sono?”.
“Sì”.
“Quanti?”.
“Due”.
“Ebbene, li caccio”.
“Ebbene, cacciali. Che importa a me di questo?”.
“Li caccio nel deserto. Hai capito?”.
“E cacciali nel deserto”.
Evidentemente, nutriva una discreta dose di indifferenza, se non addirittura di disprezzo per i suoi compagni.
Un’altra volta il Padre ripeté l’intimazione: “Vattene!”.
“Tu credi di potermi trattare come un cane” rispose lo spirito “ma ti sbagli: non sono mica Eslender”.
Era pieno di orgoglio incredibile. Spesso riusciva a imporre la superiorità sua di spirito:”Se hai paura, và a letto” sghignazzò una volta in faccia all’esorcista. Insisteva molto su questo tasto della paura, e naturalmente aveva buon gioco.
Durante il decimo esorcismo, Isabò esclamò trionfalmente:”Sai? Mi sono impossessato di N.N,”.
“Non ti credo: dammene un segno”.
“Io te lo do, ma non come intendi tu”.
“Dà un segno visibile a me e ai circostanti”.
“Niente circostanti: darò un segno solo a te”.
“Quale?”.
“Và all’inferno. Non voglio questo segno”.
Lo spirito rise ironicamente. “Allora che cosa vuoi?”.
“Dammi un segno”.
A quest’ultima imposizione, il corpo dell’ossessa si gonfiò lentamente, il suo viso si accese di un colore rosso cuoio, poi, con uno sforzo enorme, la bocca si aperse ed emise un suono forte, insistente, simile a quello di una sirena.
“E’ questo il segno?” chiese il sacerdote.
“Sì”.
“Che segno è?”.
“Il fischio di una sirena”.
“Non mi basta. Voglio un segno più manifesto”.
“Ti farò sentire una voce forte”.
“Che voce?”.
“Una voce”. E si mise a cantare con una voce stridula, che lacerava le orecchie.
“Lasciare stare; e dammi un segno più evidente”.
“Allora ti darò il segno che ti avevo promesso”.
“Quale?2.
“Ti comparirò di notte vicino al letto”.
“Taci!” urlò l’esorcista. E, dietro suggerimento del Padre Giustino, si rivolse alle donne e disse: “Impongo allo spirito di comparirmi qui. Avete coraggio?”.
“Sì”, risposero le donne. Allora si rivolse all’ossessa e ripigliò: “Tu vuoi comparirmi di notte; e io ti impongo di comparirmi qui, alla presenza di tutti. Avanti!”.
Nel fremito dell’attesa l’esorcista si era irrigidito sull’attenti, e teneva ben forte nel pugno il manico dell’aspersorio; con l’acqua santa avrebbe tracciato una insuperabile linea di difesa contro le eventuali velleità del demonio. Era un momento drammatico.
“Comparisci qui” ripetè il sacerdote nel silenzio altissimo della sala. “Comparisci qui” disse la terza opaca, rispose: “Non mi è concesso”. E un evidente fremito smascherò il suo orgoglio infranto.
Lo spirito era abilissimo nel girar gli ostacoli, ma talvolta doveva scontrarsi in imposizioni più forti della sua volontà. Come quando il Padre gli chiese: “Che si deve fare per evitare i malefizi?”. Esso si ribellò con forza a più riprese, ma poi fu costretto a rispondere: “Tenere sul petto una croce benedetta”. E si vedeva a chiari segni la profonda lotta che doveva sostenere per combattere una potenza superiore alla sua, e soprattutto nel soccombere a questa superiorità del Ministero di Dio.

IL DOTTORE NON E’ PRESENTE
In effetti gli esorcismi indebolivano sempre più la forza del demonio. Dal nono esorcismo in poi, talvolta pareva che lo spirito stentasse a trovare la parola per la risposta, e nello sforzo eccessivo sembrava un balbuziente, Allora, dalla bocca contratta, e anche dalle narici dilatate, uscivano come degli scoppi secchi, simili al rumore che fanno i sassi quando una ruota d’automobile li preme di sbieco e li fa saltare lontano. Ma cercava sempre di nascondere la sua debolezza con un tono di burbanza.
“Se vuoi che esca” ripeté al decimo esorcismo: “và a chiamare quel tuo compagno che non crede”.
“Non crede a che cosa? Alla tua esistenza?”.
“No, non crede che io sia in questo corpo”. E aveva ragione. Un confratello di P. Pier Paolo aveva espresso forti dubbi sulla realtà dell’ossessione.
“Fin qui non c’è nulla di male” rispose il Padre.
“Dov’è?”.
“In convento”.
“Dove?”.
“In camera”.
“In quale?”.
“Nella quarta”.
“Cominciando da quale parte del corridoio?”.
“Allora” esclamò sprezzante lo spirito con una alzata di spalla “sarebbe come dirti in nome”.
A questo punto, i presenti tutti udirono arrivare il dott. Lupi. Quella volta egli non era stato puntuale all’appuntamento, e, per quanto l’avessero atteso, avevano dovuto iniziare l’esorcismo senza di lui. Si distingueva benissimo il suo passo un poco trascinato, mentre egli saliva su per le ampie scale di legno, e i colpi del suo bastoncino battevano su su per ogni gradino.
Per un naturale atto di deferenza fu sospeso l’esorcismo. Si aspettò che entrasse il dottore. Arrivato alla doppia porta che separava la scala dalla scala, il dottore aprì la prima e afferrò la maniglia della seconda, e fece per entrare.
“Avanti, avanti, sig. Dottore!” invitarono i due frati.
Il dottore volgeva e rivolgeva la maniglia, apriva e chiudeva la porta, ma non si faceva vedere.
“Avanti, signor dottore!”. E il dottore sempre con il solito gioco. Volgeva e rivolgeva la maniglia, apriva e chiudeva la porta, ma non si decideva a entrare.
“Che voglia scherzare?” chiese uno.
Allora il P. Giustino si alzò dal banco, corse all’uscio, lo spalancò. “Non c’è nessuno” disse.
Tutti si alzarono in fretta e scesero le scale. Al pian terreno, la grossa porta di quercia, tutta ferrata, era chiusa a chiave come al solito. Non l’aprirono. Al di là della porta era fisso di guardia, durante gli esorcismi, Frate Antonio. Non si voleva che alcuno potesse entrare di nascosto nel convento e curiosasse. Frate Antonio, guardiano coscienzioso, era al suo posto.
“E’ venuto il dott. Lupi?” gli dissero “No”.
“L’hai visto?”.
“No”.
“E’ venuto qualcun altro?”.
“No”.
“Sei sempre stato al tuo posto?2.
“Naturalmente!”. Il fraticello era offeso da tutte quelle domande. “Perché?”. Ma nessuno ebbe il coraggio di rispondere. Erano stati beffati da qualche invisibile burlone. Eslender forse?
Risaliti in sala fu ripreso l’esorcismo. Era l’esorcismo del Sanctus. Lo spirito si agitava freneticamente, deformando in modo pauroso il volto dell’ossessa. Con quegli occhi grifagni, con quel ceffo sul quale si leggeva odio, ferocia, vendetta, diventò orribile.
Finito lo scongiuro, il sacerdote intimò di rigettare.
L’ossessa fu sul catino.
“Rigetta!”.
“Non posso!”.
“In nome di dio, in nome della Madonna …”.
“Lasciami stare!” si raccomandò con voce accorata lo spirito.
“No. Ti voglio tormentare come hai tormentato duramente sette anni questa creatura”.
“Lasciami stare. Non è colpa mia se l’ho tormentata. Mi hanno cacciato qui”.
“Per il sangue di Cristo, per la morte di Cristo, rigetta!”.
L’ossessa finalmente ubbidì.
“Che cosa abbiamo ottenuto?”.
“Hai fatto uscire una quantità di palla”. Si trattava del bolo malefiziato.
“E poi?”.
“Cosa vuoi?”.
“E quella bava)”.
“E la palla”.
“Quanta ancora ne resta?”.
“Più di un terzo2.
“Perché in questi giorni hai fatto soffrire questa creatura?”.
“Perché mi fai insegnare a te?”.
“Domando perché l’hai tormentata”.
“Io non ho nulla: soltanto il mio dovere”.
“Cioè’”.
“Come debbo fare?” scattò con impazienza. “Fermo non posso stare”.
“Ma la forza di cantare, di ballare, è ancora in te, sì o no?”.
“No”.
“E allora non può essere tuo merito il farla cantare, ballare e smaniare durante i giorni che separano un esorcismo dall’altro”.
“Lo so non c’è questa forza in te?”.
“No”.
“Come ti chiami?”.
“Isabò”.
“Chi ti ha imposto questo nome?”.
“Il mio principale”.
“E chi è il tuo principale?”.
“N.N. (il primo dei tre stregoni altra volta nominati)”.
“Prima come ti chiamavi?”.
“Non avevo nome”.
“Chi eri?”.
“Come mi mettevano” suonò la stana risposta.
“Non eri uno spirito beato?”.
“Un male”.
“Che cosa soffri?”.
Ma lo spirito non rispose più nulla. Pareva spossato.
O forse non voleva patire questa estrema umiliazione. Data l’ora tarda il Padre credette bene di chiudere l’esorcismo. Infatti lo spirito sembrava essersi chiuso in un mutismo cocciuto. “A te, immondo spirito, comando per i giorni seguenti, di … (una sghignazzata lo interruppe, ed era cosa mirabile la pronta varietà di atteggiamenti che l’ossessa assumeva) … star fermo, di non …”.
“Di non mostrarmi a te” (e rideva).
“Di non …”.
“Di non far male” (e rideva, e cantava).
“Ma cos’è questo?” chiese infastidito il sacerdote.
“Tu hai sempre una gran paura di vedermi. Eppure bisogna che mi decida a comparirti di notte in fondo al letto”.
“No” In nome di dio, in nome della santa Chiesa dimmi la verità”.
A queste parole l’ossessa spalancò gli occhi e si irrigidì quasi sull’attenti.
“Farai male?”.
“No”.
“Farai paura?”.
“Un poco”.
“A chi?”.
Lo spirito rispose con parole dolci: “A te”.
“Dove?”.
“Dove mi trovo”.
“I nome di Dio, della Madonna …”.
“No, no”.
“Farai male?”.
“Ma sta sicuro”.
“Davvero?”.
Stanco e irritato, lo spirito urlò: “Nooo!”.
E così si concluse il decimo esorcismo.

Dal libro: E’ lui a far paura al demonio

(Continua … 5 Parte)