Vera e falsa carità verso gli erranti
di Padre Felix Sarda y Salvany
di Padre Felix Sarda y Salvany
Presentiamo ai nostri lettori una pagina - oggi più valida e attuale di ieri - di un importante, ma purtroppo poco noto, libro del sacerdote spagnolo Felix Sarda y Salvani, "El liberalismo es pecado", pubblicato per la prima volta a Barcellona nel 1885. Quest'opera, criticata da "cattolici liberali" dell'epoca per la sua intransigenza, fu per contro elogiata
dalla Sacra Congregazione dell’Indice con un decreto del 10 gennaio 1887. Nella
breve pagina che segue, il dotto sacerdote confuta brillantemente la falsa concezione
“liberale” – ma noi oggi diremmo “progressista” – della carità, dimostrando che
la saggia intransigenza e la vera carità sono due facce della stessa medaglia e
che l’una non può sussistere senza l’altra nella dottrina e nella vita del
cristiano.
Il progressismo odierno si è forgiato una nozione falsa di carità presso i suoi seguaci. Con le sue perorazioni e le sue accuse d’intolleranza e d’intransigenza, che ripete senza sosta, finisce con lo sconcertare anche alcuni cattolici molto fermi. Eppure la nostra formulazione del concetto di carità è ben chiara e reale. Eccola: la suprema intransigenza cattolica non è altro che la suprema carità cattolica. Questa carità si applica al prossimo quando, nel suo stesso interesse, lo confonde, l’umilia, l’offende e lo castiga. Essa si esercita verso una terza persona quando, per liberarlo dall’errore e del suo contagio, ne smaschera gli autori e i fautori, chiamandoli col loro vero nome (“malvagi”, “perversi”), condannandoli all’obbrobrio, al disprezzo, denunciandoli all’esecrazione generale, e, se possibile, allo zelo dell’autorità pubblica incaricata di reprimerli e di punirli. Essa si applica infine a Dio quando, per la sua gloria e per il suo servizio, diviene necessario l’imporre silenzio a tutte le considerazioni umane, il ferire tutti gli interessi, l’esporre la propria vita e tutte le vite umane il cui sacrificio sarà necessario per ottenere un fine così alto.
Tutto questo è pura intransigenza nel vero amore e quindi è vera carità. I modelli di questa intransigenza sono i più sublimi eroi della carità, come la intende la vera Religione. Proprio perché oggi c’è poca vera intransigenza, di conseguenza c’è poca gente veramente caritatevole. La carità progressista, oggi di moda, è accomodante, sentimentale, anche tenera nelle forme, ma in fondo non è che un sostanziale disprezzo per i veri beni dell’uomo e per i supremi interessi della verità e di Dio.
Amare non vuol dire essere accomodanti
Non è questo, tuttavia, il campo sul quale il progressismo suole battagliare: sa troppo bene che, nella discussione sui principi, finirebbe col subire un’irrimediabile sconfitta. Preferisce accusare continuamente i cattolici di essere poco caritatevoli nelle forme del loro apostolato. E’ su questo campo che certi cattolici – onesti nel fondo della loro anima, ma corrotti dal progressismo – cercano abitualmente di attaccarci. Vediamo come si può rispondere al riguardo.
Dato che il progressismo è una cattiva tendenza, chiamare malvagi i difensori pubblici e coscienti del progressismo non è per nulla mancare di carità. E’ anzi applicare al nostro caso la legge della giustizia, valida in ogni tempo. Noi, cattolici d’oggi, non innoviamo nulla al riguardo. Ci atteniamo alla pratica costante dell’epoca antica.
I propagatori e i fautori di eresie sono sempre stati chiamati eretici quanto gli autori di quelle. E siccome l’eresia è sempre stata considerata dalla Chiesa come uno dei mali più gravi, la Chiesa ha sempre chiamato malvagi e perversi i suoi fautori e propagatori. Sfogliate le biblioteche degli autori ecclesiastici e vedrete come gli Apostoli hanno trattato i primi eresiarchi, come i santi Padri della Chiesa, i moderni controversisti e la Chiesa stessa, nei suoi documenti ufficiali, li hanno imitati. Non v’è dunque alcuna mancanza verso la carità nel chiamare male il male, malvagi gli autori, fautori e discepoli del male, e iniquità, scelleratezza, perversità l’insieme dei loro atti, parole e scritti. Il lupo è sempre stato semplicemente chiamato lupo, e non si è mai temuto, così facendo, di far torto al gregge e al suo Padrone.
Se la diffusione del bene e la necessità di attaccare il male esigono l’uso di termini un poco duri verso gli errori e i suoi pubblici propagandisti, quest’uso non ha nulla di contrario alla carità. Bisogna rendere il male detestabile ed odioso; orbene, non si ottiene questo risultato senza mostrare i pericoli del male, senza rivelare quanto è perverso, odioso e spregevole. L’arte oratoria cristiana di tutte le epoche autorizza l’uso delle figure retoriche più violente contro l’empietà. Negli scritti dei grandi eroi del cristianesimo, l’uso dell’ironia, dell’imprecazione, dell’esecrazione, di epiteti schiaccianti è continuo. Qui l’unica regola dev’essere quella dell’opportunità nella verità.
San Giovanni Battista aggredisce immediatamente i Farisei chiamandoli “razza di vipere”. Nostro Signore Gesù Cristo scagli contro di loro le offese di “ipocriti”, “figli delle tenebre”, “figli del demonio”, “sepolcri imbiancati”, “generazione perversa e adultera”, senza per questo sporcare la santità della sua caritatevole predica. San Paolo accusa gli scismatici cretesi di essere “mentitori”, “besti malvage”, “fannulloni panciuti”; chiama il mago Elima “seduttore”, “uomo pieno di frode e di astuzia”, “figlio del diavolo”, “nemico di ogni verità e di ogni giustizia”, Se leggiamo le opere dei santi Padri della Chiesa, ritroviamo dovunque un linguaggio di questo tipo. (…)
Nell’epoca moderna, vediamo apparire la radiose figura di San Francesco di Sales che, per la squisita delicatezza e la sua ammirevole mansuetudine, è stato considerato come un’immagine vivente del Salvatore. Credete che egli abbia avuto dei riguardi verso gli eretici del suo tempo e della sua nazione? Per nulla! Perdonò le ingiurie, colmò di favori, giunse a salvare la vita di quelli che avevano attentato alla sua, fino a dire ad uno dei suoi nemici: “Se mi strappaste un occhio, non cesserò con l’altro di guardarvi come un fratello”. Ma verso i nemici della Fede non ebbe nessuna moderazione né rispetto. Interrogato da un cattolico desideroso di sapere se gli era lecito parlar male di un eretico che diffondeva perverse dottrine, il vescovo di Ginevra rispose: “Certo che lo potete, a condizioni di attenervi all’esatta verità, a ciò che sapete della sua cattiva condotta, presentando come dubbio ciò che è dubbio e secondo il grado di dubbio più o meno grande che avrete al riguardo”. Nella sua opera “Introduzione alla vita devota”, libro così prezioso e celebre, si esprime ancor più chiaramente: “I nemici dichiarati di Dio e della Chiesa – dice a Filotea – debbono essere attaccati e condannati con tutta la forza possibile. La carità ci obbliga a gridare al lupo, quando un lupo si infiltra nel gregge, in qualsiasi luogo lo si incontri” (lib. II, cap. 20).
La differenza sostanziale che esiste al riguardo tra il nostro modo di vedere e quello dei progressisti consiste nel fatto che questi ultimi considerano i fautori dell’errore come semplici liberi cittadini che, nel pensare in materia religiosa differentemente da noi, non fanno altro che usare del loro pieno diritto; pertanto essi si credono obbligati a rispettare l’opinione di chiunque e di non contraddirlo che nei termini di una libera discussione. Noialtri, al contrario, vediamo in loro i nemici dichiarati di quella Fede che siamo obbligati a difendere; non vediamo nei loro errori delle libere opinioni, ma delle eresie formati e colpevoli, come c’insegna la legge di Dio. E’ dunque a ragione che un grande storico cattolico ha detto ai nemici del Cattolicesimo: “Voi vi rendete infami con le vostre azioni ed io vi coprirò d’infamia con i miei scritti”.
Amare la verità significa combattere l’errante
(…) Bisogna combattere e screditare le idee malsane, ed anche inspirarne l’odio, il disprezzo e l’orrore in quella moltitudine che esse cercano di sedurre e reclutare. Siccome le idee non si sostengono in alcun modo da sole, esse non si diffondono né propagano per il solo fatto di esistere: ridotte a se stesse, non potrebbero produrre tutto quel male di cui soffre la società. Sono simili alle frecce o alle pallottole che non ferirebbero nessuno, se non ci fosse chi le scaglia con l’arco o col fucile. E’ dunque con l’arciere o col fuciliere che deve prendersela colui che vuol mettere fine al loro tiro mortale. Ogni altro tipo di guerra sarà progressista quanto si vuole, ma sarà un nonsenso.
Gli autori e i propagandisti di dottrine eretiche sono come soldati provvisti di armi cariche di proiettili avvelenati. Le loro armi sono i libri, i giornali, i discorsi pubblici, l’influenza personale. (…)
Bisogna dunque screditare totalmente i libri, i giornali e i discorsi del nemico, ma bisogna anche, in certi casi, fare altrettanto verso la sua persona. (…) Basta soltanto non mettere la menzogna al servizio della verità: questo non si può, con nessun pretesto.
I Padri della Chiesa a cui abbiamo fatto riferimento ci danno la prova di questa tesi: gli stessi titoli dei loro scritti rivelano chiaramente che, nelle loro guerre contro le eresie, i loro primi colpi furono rivolti agli eresiarchi. La maggior parte delle polemiche dei grandi Dottori della Chiesa furono attacchi personali, aggressivi, biografici -per così dire- quanto dottrinali, lottando corpo a corpo con l’eretico non meno che con l’eresia. [Capitoli XXI, XXII, XXIII]
Il progressismo odierno si è forgiato una nozione falsa di carità presso i suoi seguaci. Con le sue perorazioni e le sue accuse d’intolleranza e d’intransigenza, che ripete senza sosta, finisce con lo sconcertare anche alcuni cattolici molto fermi. Eppure la nostra formulazione del concetto di carità è ben chiara e reale. Eccola: la suprema intransigenza cattolica non è altro che la suprema carità cattolica. Questa carità si applica al prossimo quando, nel suo stesso interesse, lo confonde, l’umilia, l’offende e lo castiga. Essa si esercita verso una terza persona quando, per liberarlo dall’errore e del suo contagio, ne smaschera gli autori e i fautori, chiamandoli col loro vero nome (“malvagi”, “perversi”), condannandoli all’obbrobrio, al disprezzo, denunciandoli all’esecrazione generale, e, se possibile, allo zelo dell’autorità pubblica incaricata di reprimerli e di punirli. Essa si applica infine a Dio quando, per la sua gloria e per il suo servizio, diviene necessario l’imporre silenzio a tutte le considerazioni umane, il ferire tutti gli interessi, l’esporre la propria vita e tutte le vite umane il cui sacrificio sarà necessario per ottenere un fine così alto.
Tutto questo è pura intransigenza nel vero amore e quindi è vera carità. I modelli di questa intransigenza sono i più sublimi eroi della carità, come la intende la vera Religione. Proprio perché oggi c’è poca vera intransigenza, di conseguenza c’è poca gente veramente caritatevole. La carità progressista, oggi di moda, è accomodante, sentimentale, anche tenera nelle forme, ma in fondo non è che un sostanziale disprezzo per i veri beni dell’uomo e per i supremi interessi della verità e di Dio.
Amare non vuol dire essere accomodanti
Non è questo, tuttavia, il campo sul quale il progressismo suole battagliare: sa troppo bene che, nella discussione sui principi, finirebbe col subire un’irrimediabile sconfitta. Preferisce accusare continuamente i cattolici di essere poco caritatevoli nelle forme del loro apostolato. E’ su questo campo che certi cattolici – onesti nel fondo della loro anima, ma corrotti dal progressismo – cercano abitualmente di attaccarci. Vediamo come si può rispondere al riguardo.
Dato che il progressismo è una cattiva tendenza, chiamare malvagi i difensori pubblici e coscienti del progressismo non è per nulla mancare di carità. E’ anzi applicare al nostro caso la legge della giustizia, valida in ogni tempo. Noi, cattolici d’oggi, non innoviamo nulla al riguardo. Ci atteniamo alla pratica costante dell’epoca antica.
I propagatori e i fautori di eresie sono sempre stati chiamati eretici quanto gli autori di quelle. E siccome l’eresia è sempre stata considerata dalla Chiesa come uno dei mali più gravi, la Chiesa ha sempre chiamato malvagi e perversi i suoi fautori e propagatori. Sfogliate le biblioteche degli autori ecclesiastici e vedrete come gli Apostoli hanno trattato i primi eresiarchi, come i santi Padri della Chiesa, i moderni controversisti e la Chiesa stessa, nei suoi documenti ufficiali, li hanno imitati. Non v’è dunque alcuna mancanza verso la carità nel chiamare male il male, malvagi gli autori, fautori e discepoli del male, e iniquità, scelleratezza, perversità l’insieme dei loro atti, parole e scritti. Il lupo è sempre stato semplicemente chiamato lupo, e non si è mai temuto, così facendo, di far torto al gregge e al suo Padrone.
Se la diffusione del bene e la necessità di attaccare il male esigono l’uso di termini un poco duri verso gli errori e i suoi pubblici propagandisti, quest’uso non ha nulla di contrario alla carità. Bisogna rendere il male detestabile ed odioso; orbene, non si ottiene questo risultato senza mostrare i pericoli del male, senza rivelare quanto è perverso, odioso e spregevole. L’arte oratoria cristiana di tutte le epoche autorizza l’uso delle figure retoriche più violente contro l’empietà. Negli scritti dei grandi eroi del cristianesimo, l’uso dell’ironia, dell’imprecazione, dell’esecrazione, di epiteti schiaccianti è continuo. Qui l’unica regola dev’essere quella dell’opportunità nella verità.
San Giovanni Battista aggredisce immediatamente i Farisei chiamandoli “razza di vipere”. Nostro Signore Gesù Cristo scagli contro di loro le offese di “ipocriti”, “figli delle tenebre”, “figli del demonio”, “sepolcri imbiancati”, “generazione perversa e adultera”, senza per questo sporcare la santità della sua caritatevole predica. San Paolo accusa gli scismatici cretesi di essere “mentitori”, “besti malvage”, “fannulloni panciuti”; chiama il mago Elima “seduttore”, “uomo pieno di frode e di astuzia”, “figlio del diavolo”, “nemico di ogni verità e di ogni giustizia”, Se leggiamo le opere dei santi Padri della Chiesa, ritroviamo dovunque un linguaggio di questo tipo. (…)
Nell’epoca moderna, vediamo apparire la radiose figura di San Francesco di Sales che, per la squisita delicatezza e la sua ammirevole mansuetudine, è stato considerato come un’immagine vivente del Salvatore. Credete che egli abbia avuto dei riguardi verso gli eretici del suo tempo e della sua nazione? Per nulla! Perdonò le ingiurie, colmò di favori, giunse a salvare la vita di quelli che avevano attentato alla sua, fino a dire ad uno dei suoi nemici: “Se mi strappaste un occhio, non cesserò con l’altro di guardarvi come un fratello”. Ma verso i nemici della Fede non ebbe nessuna moderazione né rispetto. Interrogato da un cattolico desideroso di sapere se gli era lecito parlar male di un eretico che diffondeva perverse dottrine, il vescovo di Ginevra rispose: “Certo che lo potete, a condizioni di attenervi all’esatta verità, a ciò che sapete della sua cattiva condotta, presentando come dubbio ciò che è dubbio e secondo il grado di dubbio più o meno grande che avrete al riguardo”. Nella sua opera “Introduzione alla vita devota”, libro così prezioso e celebre, si esprime ancor più chiaramente: “I nemici dichiarati di Dio e della Chiesa – dice a Filotea – debbono essere attaccati e condannati con tutta la forza possibile. La carità ci obbliga a gridare al lupo, quando un lupo si infiltra nel gregge, in qualsiasi luogo lo si incontri” (lib. II, cap. 20).
La differenza sostanziale che esiste al riguardo tra il nostro modo di vedere e quello dei progressisti consiste nel fatto che questi ultimi considerano i fautori dell’errore come semplici liberi cittadini che, nel pensare in materia religiosa differentemente da noi, non fanno altro che usare del loro pieno diritto; pertanto essi si credono obbligati a rispettare l’opinione di chiunque e di non contraddirlo che nei termini di una libera discussione. Noialtri, al contrario, vediamo in loro i nemici dichiarati di quella Fede che siamo obbligati a difendere; non vediamo nei loro errori delle libere opinioni, ma delle eresie formati e colpevoli, come c’insegna la legge di Dio. E’ dunque a ragione che un grande storico cattolico ha detto ai nemici del Cattolicesimo: “Voi vi rendete infami con le vostre azioni ed io vi coprirò d’infamia con i miei scritti”.
Amare la verità significa combattere l’errante
(…) Bisogna combattere e screditare le idee malsane, ed anche inspirarne l’odio, il disprezzo e l’orrore in quella moltitudine che esse cercano di sedurre e reclutare. Siccome le idee non si sostengono in alcun modo da sole, esse non si diffondono né propagano per il solo fatto di esistere: ridotte a se stesse, non potrebbero produrre tutto quel male di cui soffre la società. Sono simili alle frecce o alle pallottole che non ferirebbero nessuno, se non ci fosse chi le scaglia con l’arco o col fucile. E’ dunque con l’arciere o col fuciliere che deve prendersela colui che vuol mettere fine al loro tiro mortale. Ogni altro tipo di guerra sarà progressista quanto si vuole, ma sarà un nonsenso.
Gli autori e i propagandisti di dottrine eretiche sono come soldati provvisti di armi cariche di proiettili avvelenati. Le loro armi sono i libri, i giornali, i discorsi pubblici, l’influenza personale. (…)
Bisogna dunque screditare totalmente i libri, i giornali e i discorsi del nemico, ma bisogna anche, in certi casi, fare altrettanto verso la sua persona. (…) Basta soltanto non mettere la menzogna al servizio della verità: questo non si può, con nessun pretesto.
I Padri della Chiesa a cui abbiamo fatto riferimento ci danno la prova di questa tesi: gli stessi titoli dei loro scritti rivelano chiaramente che, nelle loro guerre contro le eresie, i loro primi colpi furono rivolti agli eresiarchi. La maggior parte delle polemiche dei grandi Dottori della Chiesa furono attacchi personali, aggressivi, biografici -per così dire- quanto dottrinali, lottando corpo a corpo con l’eretico non meno che con l’eresia. [Capitoli XXI, XXII, XXIII]