mercoledì 28 novembre 2018

I NOVISSIMI - ATTUALITA' DELLE ULTIME COSE - CAPITOLO 1


I NOVISSIMI

ATTUALITA’ DELLE “ULTIME COSE”

Capitolo 1
    Che cosa significa “novissimi”?

Forse è bene iniziare da qui. Poiché son molti che deprecano la vecchia catechesi, ma che non la ricordano più neppur vagamente; o non l’hanno mai né studiata né leggicchiata.
E una certa catechesi recente glissa, spicca, su questi temi. Forse per non spaventare, si assicura talvolta. Forse perché sono argomenti che toccano da vicino.
In latino, “novus” significa ultimo.
Novissimus  è lo stesso termine al superlativo: ultimissimo.
E così, con un neutro plurale: “novissima”, si  indicano le realtà supreme, quelle che avvengono al termine della vita di ogni uomo e al concludersi della storia.
Probabilmente, è equivoco parlare di “cose” definitive.
Più che “cose”, sono avvenimenti. E più che avvenimenti che si compiono attorno a noi, accanto a noi, tangenzialmente a noi; siamo noi stessi che viviamo i momenti conclusivi.
Siamo in gioco senza possibilità di delegazione.

1.   Perché parlare dei “novissimi”?
Verrebbe da rispondere: perché nessuno ne parla più, o quasi.
E non sarebbe motivazione da “bastian contrari”.
Il fatto è che l’intera produzione culturale (o sub culturale) di oggi, tacitamente, elegantemente, drasticamente proibisce di pensare a ciò che verrà. Censura anche le domande in proposito. Vietato mettere il tema sul tappeto. Vietato interrogare in questo campo. E’ segno di scorrettezza, di mancanza di educazione, di inurbanità imperdonabile.
La morte spettacolo. O la morte come “ovvietà”.
Uno se n’è andato. Poverino, ha sofferto? E il discorso si tronca qui. Il fastidio dell’assistenza è passato; e, se si è riusciti, si sono incaricati altri, gli “esperti”, pagati, com’è giusto. Non una curiosità sul “come” uno è morto: se si è preparato al passo; se era cosciente; se ha ricevuto i sacramenti; se si è spento con l’invocazione del Signore sulle labbra, o bestemmiando. E via il lutto. Roba vecchia. Chi è vivo si dà pace. Non bisogna rattristarsi, anche se il cuore si torce dal dolore. Le lacrime in privato, per favore. Ci sono gli affari da portare avanti. C’è la televisione che aiuta a dimenticare. Occorre fingere d’essere immortali.
Ecco, di fronte ad una mentalità così ottusa e refrattaria, vien voglia di smascherare la paura, se paura dev’essere.
E poi, bisogna parlare dei “novissimi” perché davvero si cambia vita, se si sa di dover morire e comparire davanti a Dio nudi come bruchi.
Non si portan di là né commende, n’è carte di credito, né prestito, né la “roba”. Ci si va tali e quali si è. Come si è voluti essere. Senz’altro che col cuore Aperto alla misericordia, o indurito come un masso. Dopo aver ascoltato mille volte l’esortazione secondo la quale val più l’essere che l’avere, viene il momento in cui la frase si impone come verità.
La vita, questa terrena, diviene più pacata e vigilante, più libera e disposta a soffrire, più lieta e fantasiosa anche, se si prevede e si prepara la fine, se ci si arrende a lasciarsi leggere dentro senza infingimenti, se si è pronti a rispondere alle domande che ci verranno poste e di cui già si possiede il formulare preciso, pulito e solenne.
Si potrebbe anche dire che si considerano i “novissimi” semplicemente perché ci sono; o meglio, perché ci siamo noi che al termine della vita troviamo un giorno senza domani: o con un domani ineluttabile e da riscattare dalla sua enigmaticità.

   2.   Come parlare dei “novissimi”?
Non necessariamente con tono funereo e terrificato.
Forse è da ammettere lealmente che non si riflette mai sui “novissimi senza un fremito. I dolori che accompagnano il passaggio. Sapremo affrontarli senza disperare? La solitudine. Avremo qualche persona che ci terrà la mano e vorrà ascoltare la nostra voce affievolita? Riusciremo a trovare il coraggio e la semplicità di conversare sui nostri timori e sulla nostra attesa? E, poi, la triste abissale furbizia che abbiamo nell’ingannarci. Vi son tratti o istanti di vita che riusciamo a “rimuovere” tanto astutamente, come se non ci fossero stati, come se non ci saranno, mentre dovrebbero lasciar spazio alla benevolenza di Dio che invade.
E, tuttavia, senza essere né autolesionisti né santi, su può giungere a chiamare la morte, cioè a chiamare il Signore che ci venga a prendere, ad avvertire uno struggente desiderio di incontrare ancora e per sempre persone che abbiamo amato. Quando i fratelli di strada ci lasciano. Quando il mondo si appanna o si affloscia come uno scenario stinto e mal sorretto. Quando le smanie e le ambizioni che sembravano dover cambiare l’universo si svelano nella loro inanità. Quando la comunione col Signore non tollera più le oscurità e le vertigini e le mediazioni.
Sia chiaro: senza morbosamente lasciarsi vivere e morire. Continuando, piuttosto, il proprio lavoro con impegno: un impegno appassionato e distaccato a un tempo. Poiché si avverte: un conto è discettare di croce, e un altro conto è salirvi; ma il cammino è obbligato. Non si sfugge. Tanto vale. Magari tremando.