giovedì 29 novembre 2018

I NOVISSIMI - LA MORTE - CAPITOLO 2


I NOVISSIMI

LA MORTE

capitolo II .

1.Si può definire la morte?

Pensa e ripensa, tra tanti dubbi di teologi contemporanei, credo che la definizione ancora meno scura sia quella tradizionale nella teologia Cattolica: la morte e la separazione dell'anima dal corpo. Dà il senso dell'estraneità dell'io umano alla dimensione materiale. Consente di spiegare - per quanto si riesce - immortalità dello spirito e la futura resurrezione dell'unitotale persona. Se il morire fosse, come in una lettura protestantica, l'annientarsi dell'io umano, e se il risorgere fosse una nuova creazione dell'io umano - perché Dio solo trionfi - non si riuscirebbe a capire almeno come si possa realisticamente parlare di identità della persona che muore e risorge. Non basta - pare - la continuità nella mente e nel volere di Dio.
Ciò sia detto pure con totale aderenza all'antropologia biblica a cui Cristo si rifà. V'è, forse, ancora da studiare in proposito, di là da una certa tendenza di specialisti recenti che hanno creato una sorta di gergo accolto troppo agevolmente in questo campo. E tuttavia, nel suo rigore filosofico, nella sua precisione, nella sua pulizia, quasi nella sua eleganza, la formula tradizionale non concede quasi nulla all'esperienza. Anche perché di preciso, di pulito, di elegante, oltre i concetti, nella morte non c'è quasi nulla. Si può tentare di evocare la morte per le situazioni accostate, per esperienze intuite, per ricordi un poco sempre sfocati o per proiezioni un poco sempre esitanti.
Un noto proverbio dice: la morte è sicura; in dubbio rimangono il tempo e il modo. Si può dar torto?
La morte. Il cader delle forze. L'avvertire che il corpo non risponde più con lentezza ai comandi che ad esso si danno. Anzi, non risponde quasi più. L'avvertire, dentro, innegabile e penoso, un senso di fragilità, di disarmonia, di dissoluzione. Il doversi piegare ad una dipendenza umiliante; si è nelle mani di altri un poco in tutto: medici che parlottano appartati e non danno più la diagnosi determinata e ancor meno accennano alla prognosi, non stanno alle domande; parenti che cambiano tono delle esortazioni: si mettono sul vago con fare rassegnato; incoraggiano, ma la loro voce si rende incrinata, fessa; visite che si infittiscono o si diradano, svelte: uno sguardo, un saluto, e negli occhi si legge la sentenza. Dio non voglia che si instauri quel crudele gioco degli specchi per cui le persone attorno fingono di non sapere le condizioni del malato, che il malato stesso conosce; il malato, a sua volta, finge di non sapere le proprie condizioni, che gli altri conoscono; e si scambiano bisbigli e battute ingannandosi tormentandosi, a vicenda.
Il dolore che debilita. I sedativi che annebbiano gli occhi e la mente. Il percepire che si va al termine. Si chiamano malati "terminali", i moribondi. È linguaggio molto più asettico. Vero, ma quanto parziale.
L'accorgersi che si perdono i contorni delle persone e delle cose; giunge il momento dell'addio: dell'augurio di reincontrarsi in Dio. E cambiano i valori. Ciò che sembrava indispensabile, diventa un peso. E si affollano alla memoria ricordi arruffati, nettissimi e struggenti.
C'è bisogno di continuare? Da ragazzo mi facevan leggere delle "litanie" con particolari agghiaccianti e innegabili:le mani stanche, il sudore, il rantolo, di capelli che si raddrizzano, ecc. E non dimentico una commedia - o tragedia? - dove il protagonista persiste nell'illusione di guarire, di uscire dall'ospedale; ma ogni volta scende di piano tra i degenti più gravi.
E viene il momento in cui si è presenza assente; si è andati; non si risponde più a nessuna voce umana. Il resto è faccenda ad altri. A noi cavarsela con Dio.
Il motivo dell'indescrivibilita' della morte? Una ovvietà sconcertante: si muore una volta per tutte. E si muore soli. L'esperienza è incomunicabile. Quella degli altri, rimane degli altri.
Non si può essere soverchiamente concreti, fino ai dettagli, nel descrivere la morte, anche perché non esiste modello ideale o normale di morire. Si può pensare a lungo o essere sbalzati dalle incombenze più usuali al cospetto di Dio. Un lungo decorso di un cancro - si dica la parola - , o un incidente stradale, o un arresto cardiaco. Si può morire rinchiusi in se stessi, imprecando, o esalando flebili invocazioni che il Signore venga a prenderci; da stoici che rifiutano ogni lenimento e ogni consolazione - ma chissà -, o da credenti impauriti o agognanti, da retrattili che esigono la solitudine o da comunionali che tacitamente invocano il conforto di una parola e di una mano che tenga la mano. Si può perfino - crudelmente - supplicare che sia data la morte perché si è stanchi della vita e del penare. Ma poi? E la vita è nostra.

2. Come la fede descrive la morte?

Ignoro che cosa sarebbe stata la morte nel caso in cui non fosse entrata nel mondo col peccato. Un addormentarsi beato per ritrovarsi nella gloria? Un passaggio indolore e quasi inconscio nell'oltretempo? Ignoro, e non mi interessano troppo le ipotesi.
So che la morte quale noi siamo chiamati a sperimentare, con angosce, con timori, con sofferenze indicibili, è conseguenza della colpa d'origine e di quanto è venuto dopo.
Non occorre molto acume per capire che sono ingannevoli le pennellate un po' razionalistiche ideologiche – crudelmente candide - , che disegnano non si dice il mondo migliore possibile, ma anche soltanto un mondo non robustamente dominato dalla colpa umana e del maligno. Se si sta coi piedi per terra e non ci si lascia trasportare nel paese dei balocchi, ci si avvede di botto che siamo immersi nel male fino al collo. In modo irrimediabile, con le sole nostre forze. La solidarietà con la libera ribellione di “Adamo”.
L’inclinazione prepotente all'errore e al non valore. La “ratifica” di questa inclinazione con le scelte è personali perverse. Il consolidarsi e l’ingigantire del “peccato del mondo” il quale si affianca al Regno che pur cresce nel silenzio paziente: “peccato del mondo” che si concretizza in una situazione oggettiva, ma che è esito e, a un tempo, condizionamento della nostra libertà.
E la morte e si colloca in questo contesto come il supremo frutto amaro, come la più orrida espressione del nostro ribellarci a Dio. L'estrema nemica.
Bisogna essere consapevoli che, morendo ci si piega questa condanna che no non l'amore di Dio ci ha lanciato a modo di vendetta, ma il nostro odio a Dio ci ha inflitto. Autopuniti. Sarebbe disperante, però, so stare a questa visione realisticamente buia e greve e irredenta.
Per chi crede, la morte è stata riscattata da Dio, come è stata riscattata e rinnovata la vita. Il Dio di misericordia che ci ha creato, non ci ha abbandonato al nostro destino di dannazione. Non si è limitato a guardarci da lontano, magari distrattamente: ci ha presi tanto con serietà da inviare il suo Figlio, per amore incomprensibile, a farsi uomo come noi, a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana. Così, per vincere il nostro peccato, egli se lo è incaricato sulle spalle e l'ha portato sulla croce. Per liberarci dalla morte orrenda che era il nostro castigo, si è consegnato liberamente alla morte. Egli, Dio; l’unico uomo innocente.E ha superato la morte, risorgendo, Un Cristo che no fosse Dio, non interesserebbe più di tanti sapienti che piangono con noi anche i loro peccati. E non possiamo salvarci da soli. Un Cristo che non fosse risorto dalla nostra morte, segnerebbe una tomba in più. Ci lascerebbe nel nostro scoramento.
Non  senza sofferenze atroci egli è spirato. Sarebbe, forse, stata una beffa, una morte affrontata dal Signore Gesù con la spensieratezza e la levità di un superuomo o di un “dio” che si degnasse di cavarci d’impiccio senza lasciarsi coinvolgere nel nostro inferno. Con dilezione spontanea si è offerto al patibolo. Ma ha pianto, ha sudato sangue di panico, ha supplicato che passasse da lui quel calice; però, non la mia, ma la tua volontà sia fatta, Padre; ha rifiutato l’analgesico per assaporare fino in fondo lo scempio del dolore; ha patito l’abbandono del Padre: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed è spirato affondando nella benevolenza del Padre: tutto è compiuto; nelle tue mani consegno il mio spirito. Poi, la resurrezione, il dono del Paraclito, la Chiesa, la porta aperta del cielo.
C’è di che ringraziare il Signore Gesù per questo suo imparare l’obbedienza attraverso ciò che ha patito; e per essersi affidato alla morte con la certezza del gaudio che gli era promesso; e per averci preceduti e quasi inclusi nei suoi tormenti, fino all’obbrobrio del morire “per noi”: a nostro favore e in nostro nome.
Per quanto paradossale l’osservazione possa apparire, Cristo è stato l’unico a misurarsi e a lottare con una morte “non cristiana”.
Dopo di lui, la morte cristiana esiste nel “Vivente”. E poi siamo chiamati a seguirlo. Non certo senza patimenti, ma con la sicurezza che i dolori hanno un senso e che la morte è un passaggio, non un termine; un passaggio ad una novità sorprendente.
Così, per noi, il morire non è il piombare nell’assurdo del nulla, o il ritorno nell’eterno inconcludibile ruotare delle cose, o la ribellione al suo acme; gridata nel vuoto; o soltanto il lasciare il ricordo della fama, per ciò che essa è, o delle opere, per ciò che esse sono. Corte vedute. Povere consolazioni. Tristi rivalse.
Per chi crede, il morire non è vicenda da consumarsi in una solitudine accasciata. E’ rispondere ad una chiamata e a una trepida attesa di Dio; dall’altra sponda del fiume del tempo. E’, in termini più corposi, un nascere di nuovo ad una vita perenne.
Di più. Il morire è l’estremo unirsi al Signore Gesù nel suo libero affondare nel mistero di Dio.
Unirsi al signore Gesù e partecipare al suo dono d’amore e alla salvezza di tutti.
Un intreccio di sofferenze e di gioia, di paure e di speranza, di castigo e di dono, di gemiti e di invocazioni, di solitudine e di comunione, di frustrazione e di magnanimità, di soffocamento e di liberazione, di costrizione e di libertà, di lotta e di offerta, di sconfitta e di vittoria. E, varcato il passo del tempo, tutto si chiarisce e si semplifica.
La morte va lasciata in questa sua ambiguità. E’ un groviglio che un altro dipanerà. Un groviglio che anche noi dipaneremo, perché, al fondo, si sceglie e si decide la morte che si vuole.

3. Come prepararsi a morire?
Vivendo. Vivendo come si desidererebbe morire. Badando a ciò che veramente vale e a ciò che non, in quel momento. Sopportando le prove dell’esistenza come avvìo e apprendistato. Cogliendo gli sprazzi di letizia come vigilia di ciò che sarà. Impegnandoci a lasciare il mondo un po’ meglio di come l’abbiamo trovato, poiché anche il mondo entrerà nel passaggio che sbocca di là. Dìligendo i fratelli, poiché anch’essi sono chiamati ad essere, con noi, in una compagnia felice, senza screzi, senza incomprensioni, senza scarti di comunione.
Pregando, soprattutto. Il contatto con Dio è la più limpida anticipazione della morte.
E’ quanto suggerire che ci si prepara a morire con tutto ciò che si è e si fa. Avvertendo l’anelito d’andare oltre la provvisorietà. Coltivando il gusto di Dio e l’attenzione ai fratelli. Contemplando e dominando le cose. Il lavoro non è estraneo alla morte. E’ una favola sciocca quella di chi sentenzia che il pensiero della morte distoglie dalle responsabilità terrene, tutt’altro. Stimando le cose e gli avvenimenti con il giudizio di Dio. Cambia tutto.
E bisognerà esser pronti ad ogni istante. Essere in grazia di Dio. Vivere in unione con Cristo perché ci si possa unire ancora più profondamente a lui.
Occorre predisporsi in modo tale che, quando ci si trova alla porta dell’eternità, si sia monti a consegnarsi a Dio, con il signore Gesù, per ciò che si è. Semplicemente va dato tutto. Con umiltà, dal momento che non si ha più nulla da difendere. Con fiducia, dal momento che non si hanno vanti da presentare e urge un’acuta insopprimibile esigenza, dal momento che non si sfugge alla legge, ma la legge va interiorizzata il più possibile quasi fino a farla coincidere con una docilità libertà che desidera, invoca, anela.
Se poi si vuol programmare la prossimità della morte, bisognerà non avanzare eccessive pretese. Si farà ciò che Dio vorrà nella sua benevolenza.
Uno può desiderare una morte magari faticosa, ma cosciente, non provvisoria. “Dalla morte inconsapevole e improvvisa liberaci, o Signore”.
In casa, e non nell’isolamento di un ospedale. Attorniato da parenti e amici. Gradirebbe di dire le poche parole che contano e che riassumono un’esistenza. Gradirebbe di venir ascoltato senza provocare timori o fastidi. Gradirebbe di esser aiutato a morire non con dotte lezioni, ma con la prossimità di un affetto che nasce dalla fede. Una morte preparata con una confessione generale, così che il perdono di Dio scenda su tutto, su tutto. Con l’unzione degli infermi che lenisca il dolore e sostenga nell’agonia. O almeno dia la forza di sopportare. Col viatico che è il pane del cammino senza ritorno nel mistero, e segna la compenetrazione più intima con Cristo. Con il rosario in mano, perché la Madonna renda meno aspro il passo. Quante volte si è detto: “Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”. E’ il caso. Con le fotografie dei suoi morti davanti, così da chiamarli perché ci vengono incontro e ci accompagnino. Con la consapevolezza di star morendo. Magari con il coraggio di parlare della propria morte e di ciò che attende dopo, con le persone che assistono e fanno visita. Magari con sulle labbra e nel cuore l’invocazione a morire, poiché tutto è pronto e “Vieni, Signore Gesù”. Il resto non conta.
Uno può desiderare questo e altro. Senza lasciarsi prendere dall’idillio. Ragionar di morte, magari in momenti felici, è abissalmente lontano dal morire.
Ma, alla fine, deve accettare la morte che il Signore gli manda, o trepidamente gli dona. L’importante è che il cuore sia disposto, se non a cantare l’alleluia, almeno a dire un grazie sommesso, o un amen che è pura rassegnazione.
Non si fa della poesia zoppicante su eventi ignoti e drammatici. Né ci si attribuisce senza batter ciglio atteggiamenti e frasi di santi. “Muoio, Dio, perché non muoio”. “Sorella morte corporale”. Ecc. Si vedrà nei fatti. La santità non si improvvisa. E ce n’è di quella per nulla pacata. Si rasserenerà, e forse sta avvertendo per la prima volta la verità della pagina del Getsemani.
Nella lotta finale, vale il “E adesso, a noi due”.
Si combatte con Dio tutta la notte, per farsi da lui benedire, al mattino.